
Se il pm che indaga sul neo ministro Saverio Romano ha chiesto l’archiviazione del caso, ci sarà un motivo
Palermo, si sa, col suo milione di abitanti, le sue attività, le sue imprese, la sua cultura, potrebbe anche non esistere. Se esiste, se il suo nome dice qualcosa all’immaginario collettivo italiano, è perché Palermo è la sede di una nota Procura della Repubblica.
Bene, nella “capitale morale” della giustizia italiana, dove non solo Giulio Andreotti sa cosa vuol dire passare dieci anni di vita sulla graticola di imputato “presunto colpevole”, il fino a ieri sconosciuto onorevole Saverio Romano (e da ieri nuovo ministro dell’Agricoltura), è rimasto impigliato all’accusa di “concorso esterno in associazione mafiosa”.
La vicenda risale a otto anni fa e l’imputazione è scattata non sulla base di reati accertati, ma sulla scorta delle solite intercettazioni, “si dice”, frasi di pentiti. Il pubblico ministero titolare del fascicolo è un certo Nino De Matteo, pm puntiglioso, arcigno e non meno ideologicamente motivato di Antonio Ingroia, il magistrato che ha arringato le folle a piazza del Popolo nella recente manifestazione romana contro la riforma della Giustizia.
Per farla breve, dopo otto anni di indagini il pm De Matteo – il “duro” De Matteo – ha chiesto al Gip l’archiviazione del caso Romano, poiché «non ci sono elementi per sostenere l’accusa in giudizio». Purtroppo, la richiesta di archiviazione non è stata accolta dal gip Giuliano Castiglia e rimarrà a giacere nell’ufficio del giudice finché, il prossimo primo aprile, il gip (forse) deciderà per l’archiviazione o il supplemento di indagine.
Nel frattempo capita che il fino a ieri pressoché sconosciuto Saverio Romano abbia dato un bel contributo alla stabilità del governo Berlusconi. Uscendo dall’Udc e andando a formare il raggruppamento parlamentare dei Responsabili. Ieri, da neo ministro, Romano si diceva ancora fiducioso nella Giustizia. «Il gip non è un passacarte ed è giusto che faccia le sue valutazioni». E poi, di cosa stiamo parlando? «Non mi lascio logorare dall’ansia e non mi lascio irretire da provocazioni a orologeria. In Italia capita ancora di potersi difendere da processi e condanne. Volete che dopo otto anni mi difenda anche da una richiesta di archiviazione?».
Già, uno pensa che sia un po’ assurdo difendersi pure da un pubblico ministero che dopo averti rivoltato come un calzino, dichiara di non avere nessuna prova per sostenere l’accusa nei tuoi confronti. E invece nemmeno Kafka avrebbe potuto immaginare che, dai meandri di chissà quale castello, venisse fuori una storia come quella del comunicato diffuso dall’ufficio stampa del Quirinale. Romano aveva appena giurato davanti al Capo dello Stato. Subito dopo il giuramento, le agenzie battevano un comunicato secondo il quale il Qurinale avrebbe chiesto al neoministro di «chiarire le pesanti imputazioni a suo carico». Richiesta un po’ singolare, anche alla luce della freschissima investitura ufficializzata dallo stesso Capo dello Stato. E poi, “pesanti imputazioni”. Che significa? E’ “pesante imputazione” trovarsi di fronte a un Gip con una richiesta di non luogo a procedere?
Perciò, siccome mai potremmo immaginare che appoggiandosi al circuito mediatico il Capo dello Stato intenda fare politica attiva, mettere in crisi il governo e, men che meno, condizionare un giudice chiamato a valutare una richiesta di archiviazione, non ci resta che pensare che si sia trattato di un equivoco o di un errore di comunicazione che ci riporta alla preoccupazione espressa recentemente dal professore Luca Ricolfi. Il quale, da solido uomo di sinistra qual è, trova che l’anomalìa italiana nei rapporti tra giustizia e politica ha ormai assunto i connotati di una vera e propria emergenza democratica. Infatti, «visti i metodi che usano, chiunque sarebbe terrorizzato di candidarsi a guidare l’Italia. Si può sperare di godere del favore, dell’indulgenza, o del disinteresse dei pm, ma nulla esclude che, una volta cambiato il vento, la propria reputazione sia distrutta da un assalto giudiziario».
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