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Sbirri e banditi a caccia del destino

Il secondo romanzo di Maurizio Zottarelli è un impasto di violenza e domande, sangue, proiettili e poesia dal gusto davvero “tempista”

Caterina Giojelli
12/03/2020 - 1:16
Cultura
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Articolo tratto dal numero di marzo 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Premessa. Arrivati alla pagina 336, abbiamo chiaro che la prima cosa che ci toccherà dire per parlare del libro di Maurizio Zottarelli è che Zotta è nostro, nostrissimo.

Zottarelli è stato il primo redattore della banda delle due lire, tre telefoni anni Ottanta, quattro sedie e un computer che somigliava a un tostapane, con la quale Luigi Amicone diede alle stampe, il 28 settembre 1995, il primo numero turboamiconista di Tempi. Poveri in canna ma gioiosi di guerre di bottoni, Tempi era l’impiego precario diurno e notturno del giovane Zottarelli e Zottarelli il nostro capostirpe.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Oggi Zotta è di Libero, ma freganiente, la bandierina su Confini (il suo secondo romanzo, edito da Morellini) noi della stampa semiclandestina la issiamo lo stesso.

L’ossessione del bottino

Dicevamo nostrissimo. E non solo perché tra una chiusura da capocronista e una strambata in barca a vela (sì, ha esordito come autore teatrale, ha fatto a fette il bardo con la commedia Shakespeare al Kilo, è stato finalista con Marlboro Lights al Niaf Prize di New York, ha già all’attivo un romanzo, L’undicesimo dito, e sa anche uscire da casco e giacca di pelle per fare lo skipper) Zottarelli ha scritto un libro in cui fin dal primo capitolo compaiono fucili d’assalto, berette e mitragliatori, fiotti di sangue scuro che schizzano su tavoli e divani, depravate braverie, frastuono di gemiti e tonfi, qualcuno che sorvola con lo sguardo «le macerie di ciò che aveva sempre saputo essere vero», corpi fracassati che mugolano tra le mani di chi li ha amati. 

Ha scritto un libro sul bottino. Preteso fino al delirio, conquistato, frantumato, difeso, perso, barattato, inseguito, disperso, pagato troppo, anelato. Zotta ha scritto un libro sulla ricerca o la difesa del bottino che muove ogni cosa, sfonda i confini ma senza confini e legami resta senza verità: Zotta ha scritto un libro sul destino.

Tutto in frantumi

«Non sono pazzi. Sanno quello che vogliono. Ed è meglio darglielo». Tanto quello che vogliono i componenti della feroce banda di rapinatori di ville a cui dà la caccia l’ispettore Danilo Alfieri «se lo prendono comunque. Si tratta solo di decidere se farsi portare via anche tutto il resto». Ed è sul resto del bottino che fila stupendamente il libro di Zotta consegnando lo snodarsi di eventi crudi e terribili agli albanesi Artur ed Engjëll, che travolgono tutto con la feroce fuga dalle proprie case, «non come queste ville». Il primo, atteso dalla sorella Danja, «ecco, io vorrei qualcosa che possa durare senza essere distrutto», due occhi verdi, spietati e supplici che ricordano al distruttivo e distruttore Artur che lui sa «cosa è giusto e cosa no», «non siamo dei pezzi che si rompono e finiscono uno alla volta… Non speri anche tu che non sia tutto qui?». Il secondo, in fuga dall’odiata attesa negli occhi dei bambini, dei vecchi, degli uomini della sua terra, «con i fratelli che aspettavano come pulcini nel nido a bocca aperta. Sua madre era diversa. Anche lei aspettava, ma aspettava lui. Ora però era morta e non lo aspettava più nessuno», ma non smetterà mai di pensare a Danja. 

Le donne come sentinelle di coscienza attendono, mentre un colpo dopo l’altro, tutto va in frantumi, nella villa degli anziani, piatti e tazzine si schiantano «nell’esplosione di una primavera vecchia e scolorita di cinquant’anni», bestioline di cristallo schizzano sul pavimento «in un’euforia animalesca», nubi di sangue, di ossa e cervello si depositano sulle giacche eleganti appese nelle cabine armadio di benestanti capaci davanti alla morte solo di «una parola di troppo», e i «non farmi male» di una ragazza che trema diventano per un rapinatore «il desiderio di farle male. Per quello che lei chiedeva come fosse un diritto. Il diritto di essere quello che era e che lui non sarebbe mai stato. Di essere da quella parte del confine dove lui non sarebbe mai potuto entrare». Tutto va in frantumi, vite, cose, perfino qualcuno della banda, depositato come «rugiada rossa» sul letto delle sue stesse vittime.

Una speranza da condividere

La coscienza insiste sulle viscere di buoni e cattivi mentre Zottarelli va impastando desideri di giustizia, torbidi peccati e lampi di redenzione, coscienza che una vita data a nulla sia condannata ad essere rubata, portata via. Chiusa in sacchi neri di plastica buoni a contenere cadaveri a interrogare i giusti: Alfieri sente affondare nella carne «l’ingiustizia di non poter fermare nemmeno un respiro» dell’attimo in cui ama la sua donna così «stanca di aspettare», «il problema è che si aspetta quasi sempre da soli», misurandosi fino all’ultima riga con il coraggio di essere felici, ovvero «accettare che non dipende tutto da te».

Neanche l’esito di una caccia che porterà vittime e carnefici, armati di mitra e domande, a difendere non più la pelle ma nella barbara solitudine una «speranza da condividere», «ascolta, quanto tempo è che cerchiamo qualcosa per cui valga la pena crepare?», fino al crinale dell’esistenza, l’ultimo confine, quando «finisce tutto, non è giusto!» e non resta che uscire nel buio che colma ogni cosa: «Allora adesso usciamo e ce la mangiamo tutta questa verità». Nostrissimo, Zottarelli. 

Tags: confinitempi marzo 2020
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