Rugby tra mito, botte da orbi e poesia. Mitologia dell’ultimo sport da uomini rimasto
Il motto vuole che Dio abbia inventato la birra per evitare che gli “avanti” conquistassero il mondo. Perché il rugby è più di uno sport, è una guerra. Ragionata, ma pur sempre una guerra. Non per niente, scriveva P. G. Wodehouse, «segnare una meta comporta una serie di azioni che, in un qualsiasi altro contesto, causerebbero al protagonista quindici anni di galera e una ramanzina dal giudice».
In un campo da rugby, invece, il massimo che si rischia è una sospensione di dieci minuti, oppure l’espulsione. Niente tribunali, per chiarirsi basta il terzo tempo, quell’incredibile caratteristica del rugby in base alla quale a partita finita, dopo che la doccia e il ghiaccio hanno lenito un po’ le botte, si va a bere tutti insieme, brindando proprio con quel flanker avversario che poco prima ti ha camminato sulla testa. In questo sport quando l’arbitro fischia e il pallone finisce in touche, in fallo laterale, finisce tutto: per Marco Bollesan, ex giocatore, «il rugby è guerra. Ma dopo viene la pace più bella del mondo».
Ecco perché la palla ovale ha suggerito centinaia di aneddoti e massime destinate a restare nella storia, come la mitica filippica pronunciata dal gallese Phil Bennet ai compagni prima di entrare in campo contro l’Inghilterra: «Guardate cosa hanno fatto al Galles questi inglesi bastardi. Hanno preso il nostro acciaio, la nostra acqua, il nostro ferro. Che cosa ci hanno dato in cambio? Assolutamente nulla. Siamo stati espropriati, derubati, controllati e puniti dagli inglesi. E noi giochiamo contro di loro oggi pomeriggio».
Vero, non vero, poco importa: per un rugbista il dubbio non si pone neppure. È legge. Françoise Sagan disse di amare il rugby «non perché è violento ma perché è intelligente». «Una partita a scacchi giocata in velocità» lo definì qualcun altro. «Trenta uomini che inseguono un sacco di vento» per il nazionale irlandese Willie John McBride, «uno sport in cui ci sono quelli che suonano il piano e quelli che lo spostano» secondo il nazionale francese Pierre Danos. Ma forse la definizione più bella e calzante è quella offerta sempre da un francese, lo scrittore Jean Giraudoux: «Otto giocatori forti e attivi, due leggeri e furbi, quattro rapidi e un ultimo modello di flemma e di sangue freddo. Una squadra di rugby è la proporzione ideale fra gli uomini». E probabilmente, per dirla con lo scrittore inglese David Storey, «è l’ultimo sport da uomini che sia rimasto».
Mauro Bottarelli
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