Proteggere le parole dall’ideologia del buio
C’è una terribile carta moschicida che incolla i cuori al nulla: il potere. Si tratta di un idolo sordo e cieco. Non sente e non vede il dolore degli uomini, ma soprattutto non capisce la loro umanità e non sopporta la loro libertà. La menzogna che lo istituisce viene denudata da una realtà altra e differente. Sono le vite pulsanti e vive di uomini e donne che lo mettono in crisi. Si tratta di persone come tante, ma con un desiderio infinito di verità e bene. Non bastano calunnie, cattiverie inenarrabili, processi e condanne ad arrestare tali esistenze integrali.
Un’ultima parola, una parola piena di parresia, detta a fine processo, resta e si incide nell’anima di tutti. In Proteggi le mie parole (Edizioni e/o, Milano 2022), a cura di Sergej Bondarenko e Giulia De Florio in collaborazione con l’Associazione russa Memorial e con la prefazione di Marcello Flores, troviamo raccolte le ultime dichiarazioni fatte da venticinque prigionieri politici negli anni tra il 2017 e il 2022. La loro presa di parola è una testimonianza da conoscere e da far studiare nelle scuole. È un evento, infatti, in grado di perturbare il sonno tranquillo della ragione.
E mette in comunione le vite di tutti i dissidenti e giusti che hanno creduto in tempi diversi nella possibilità di un’altra Russia, aperta al dialogo e alla speranza. Sacharov, Sharansky, Sinjavskij, ieri; oggi tante persone della società civile che vogliono un bene grande per tutti.
La storia di Navalny
La sua condizione richiama quella di Dmitrij Karamazov, personaggio di Dostoevskij, che viene volutamente mortificato e ingiustamente condannato dal potere di chi accusa senza verità. Sebbene nudo, tuttavia, Navalny ha qualcosa di non visibile e grande, che sfugge al controllo di chi opprime: il cuore profondo. Il suo cuore mette a nudo chi vuole far perdergli pudore e dignità. Incontra e intercetta sul muro della prigione da un ritratto lo sguardo di Tolstoj. Il celebre scrittore che sulla guerra ha detto tante cose vere.
Il grande pacifista russo annotò una sua riflessione il 4 giugno 1904: una data che è anche segno misterioso. Il 4 giugno, infatti, è proprio la data di nascita di Navalny. Nella vita del dissidente russo, perciò, misteriosamente risuona la riflessione di Tolstoj, scritta in un lontano giorno di giugno: «La guerra è figlia della tirannia. Chi vuole combattere la guerra deve solo combattere i tiranni».
Basta una frase sbagliata
Altre persone in questo momento soffrono pene ingiuste. Hanno un’unica colpa: desiderare la pace. Saša Skočilenko ha organizzato manifestazioni musicali contro la guerra e ha diffuso cartoline con una frase semplice: «L’amore vince la guerra e la morte». Nella sua ultima dichiarazione non ha paura di parlare della sua fragilità e della sua debolezza. La donna, accusata di aver diffuso false informazioni, soffre di una malattia autoimmune ereditaria e di gravi problemi al cuore, aritmie e blocchi atrioventricolari. Ma la sua condizione precaria di salute viene ignorata. Cosa conta la vita di una giovane donna per l’ideologia del buio?
Non si tratta, peraltro, di una terrorista o un’estremista, ma di una poetessa e musicista che non vuole che muoiano dei giovani russi e ucraini. Come non tremare per il suo destino? Saša sperimenta, infatti, la forza meccanica dello Stato contro l’io. Un apparato intero si erge contro una persona: il Leviatano opposto a una donna. D’altro canto, ricorda Svetlana Prokop’eva proprio gli Stati nel XX secolo hanno schiacciato soggetti fragili, condotto guerre inutili e portato avanti ideologie di morte. Il potere totalitario degli Stati si è avvalso di meri esecutori di ordini senza dignità e senza volontà. È, invece, solo grazie a un io responsabile e solidale con gli altri uomini che può nascere una società giusta e libera.
Le fosse con seimila cadaveri
Veniamo poi a conoscenza della storia di Viktorija Petrova, manager di 28 anni, arrestata per avere postato link e video contro la guerra sui suoi profili social. Nel suo discorso troviamo una serie di domande che bucano i timpani dell’idolo. “Perché negli ultimi sei mesi sulle città dell’Ucraina sono state sganciate e continuano a esserlo (centinaia) di missili e bombe?” “Ma davvero c’è un neonazista in ogni casa? Nelle scuole, negli asili, negli ospizi, negli ospedali, o nel teatro di (Mariupol’), dove sono stati (ammazzati) centinaia di civili?”. Il suo serrato e argomentato incalzare smonta propaganda e parole basate sull’intimidazione. Le sue domande di fuoco bruciano i castelli di carta della falsità.
E, infine, per non concludere, la storia drammatica di Jurij Dmitriev. Ha scoperto alla fine degli anni Novanta le fosse di Sandormoch (Carelia) dove furono uccisi più di seimila persone durante il terrore staliniano. Il suo nome è stato infangato con false accuse volte a distruggere la sua reputazione. I colpi del potere, infatti, vanno proprio contro chi si dichiara ed è patriota. La patria è, però, incisa nella sua storia personale e familiare. Il padre adottivo dello studioso, infatti, ha conosciuto sulla sua pelle la guerra e così i familiari della moglie. Dmitriev ritiene che la patria sia anzitutto madre. Una madre può star male, ma si curva verso i suoi figli dimenticati. Ecco perché: «La mia strada è quella di far tornare dal nulla le persone scomparse per colpa di uno Stato che era la nostra patria. Persone accusate ingiustamente, fucilate, sepolte nei boschi come bestie randagie».
Un grazie drammatico
Dmitriev non ha vergogna a guardare la realtà e a vederla così com’è. Parla della sua fede, perciò. Non una fede asservita al Potere, ma viva. Sua figlia, infatti, è stata battezzata proprie alle Solovki, un luogo sacro diventato poi campo di concentramento, tristemente famigerato. In quel luogo, – espressione del buio staliniano -, la figlia ha ricevuto il sacramento. La salvezza, curiosamente, è arrivata proprio da lì: un posto tragico, cambiato dalla verità. Un segno di contraddizione, in atto, di cui essere grati. Un mutamento misteriosamente reale in un luogo nel passato dominato da anime morte. «Nessuna fanciulla è mai stata battezzata lì. Mia figlia è stata la prima e l’unica. E ringrazio il Signore per aver fatto sì che accadesse».
Il grazie di Dmitriev rimanda ai tanti grazie di Julija Galjamina nella sua ultima dichiarazione. Galjamina, filologa di profondo spessore, ricorda nel suo intervento che la gente ha il diritto di decidere cosa fare della propria vita e del proprio futuro. Esprime, anche, la sua gratitudine a politici, amici, familiari, studenti, milioni di persone che l’hanno sostenuta durante il processo intentatole per le sue critiche alle modifiche fatte alla Costituzione russa.
Un grazie drammatico e ultimo che ci scuote, perché arriva da dissidenti che hanno il solo torto di volere ciò a cui ogni uomo aspira: pace e libertà.
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