«Per la razza che preferisce?». «Umana, signor giudice, umana dovrebbe andare bene»
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Incontrare Cristo andando in chiesa è abbastanza facile. Incontrarlo in Perù sorseggiando inca cola è più complicato, ma questo è quello che accade quando una passione formidabile per il creato ti scava la carne e fa fracasso in un mondo che va uccidendo la passione con l’aridità infeconda del tenerume. Per molti anni Laura Debolini e Filippo Fiani ignoravano dove li avrebbe portati questo baldanzoso aut aut che li aveva fatti incontrare tra i banchi di una scuola toscana, decidere di fidanzarsi, sposarsi e mettere piede giù dal letto ogni santa mattina col desiderio di raccogliere sulla loro strada almeno un bimbo meno fortunato di quelli che pensavano che Dio avrebbe voluto donargli. «Poi Dio, che evidentemente ha l’occhio lungo, ha visto che era meglio se si partiva subito da quelli meno fortunati. E così è stato».
Non sono stati certo i primi. Sono tanti i bimbi, presi per mano non al primo loro vagito, e che hanno già fatto tanta strada sotto il cielo per volare letteralmente oltre la terra natale: quel nido nascosto, che pure esiste da qualche parte dentro ogni bimbo abbandonato, ogni orfano, ogni genitore adottivo, per i più si può solo immaginare in silenzio, spesso relegandolo nell’iperuranio sentimentale dell’“uh poverini”. Oppure si può portarlo alla luce, lasciare che la memoria dell’origine di un desiderio che si è fatto bimbo si faccia respiro e generi, dieci, venti, cento volte tanto. Ed è eccezionale, in tempi caotici consegnati ad amori rimpiccioliti a catenelle di baci e padri di bimbi resi orfani da madri in affitto, correre al seguito dell’umanissima baraonda scatenata da chi ha il dovere e il coraggio di raccontare la storia così com’è, cioè che i bimbi non si fabbricano, né si comprano («voglio che qualcuno mi spieghi perché io, per non lasciare abbandonato un bimbo già nato, che non ha i miei geni, devo spendere decine di migliaia di euro e andare dall’altra parte del mondo, mentre viene quasi gratis, cioè a carico dei contribuenti, andare a generarne uno di sana pianta a mezz’ora di macchina da casa»), né tantomeno si scelgono («Per la razza, che preferisce?». «Umana, signor giudice. Umana dovrebbe andare bene»). E che se si adottano non è per dar cura alla sterilità o sollazzo alla voglia di avere un figlio, ma per dare vita a tutta un’altra pasta di desiderio, quello «di rendere una famiglia a qualcuno che non ce l’ha più», un desiderio bello e faticoso perché adottare è anche «abbandonare», e «scoprire la bellezza del dono totale di sé contemporaneamente alla vergogna del doversi negare ad altri e rendere questo dono esclusivo per una persona». Laura e Filippo avrebbero voluto trascinarseli tutti in Toscana i bambini incontrati negli istituti e nei due viaggi, così diversi, per diventare mamma e babbo di Maria Pilar e Samuèl, perché il fermento generativo, quando si fa strada, diventa popolo: e che popolo, quello radunato attorno ai Fiani, facile trovarvisi immersi per chiunque abbia partecipato a un Family Day o li abbia seguiti sui loro blog – visitati decine di migliaia di volte da chi cerca informazioni sull’adozione o l’affido –, anche solo per veder crescere la giudiziosissima e curiosissima Mapi o quel vivacissimo guastafeste di Samuèl.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Si sa, molto delle storie delle famiglie adottive è nei libri: trattati, memorie, saggi, carteggi. Gli esperti, i giudici, gli psicologi, i passacarte, i mangiapreti, i dissuasori di passione, le indiavolature furibonde, «chi ha adottato all’estero dopo il 2011 non ha ricevuto più nessuna sovvenzione (oltre la deduzione delle spese sostenute) eppure i soldi per la fecondazione eterologa a Careggi li avete trovati»: non manca nulla nel libro di Laura e Filippo. Non mancano le polemiche, ma anche gli interventi di un nonno dal paradiso, le pastasciutte, i capelli da sforbiciare, i compiti, le gramaglie, le nonne che sferruzzano, la compagnia della sorella grande affidataria, gli angoli da smussare ogni momento, le cicatrici ombelico da illuminare (perché «ci permettono di dimostrare ai nostri figli la gratitudine profonda che portiamo verso quella donna che non li ha buttati via, che li ha amati talmente tanto da dare loro una possibilità di vivere pur sapendo che probabilmente quella vita non l’avrebbero condivisa con lei»), ma soprattutto non manca un che di festa irriducibile al protocollo, che lascia pedalare al vento dialoghi, emozioni e ricordi dei due autori. E tanta, tantissima gratitudine per una presenza che move il sole e l’altre stelle e moltiplica, pani, pesci e porzioni di pollo.
C’è la vita così com’è, insomma, e quindi ci sono le sorprese come sempre accade quando non si scardina la passione per il creato e chi ha posto l’ultimo logos dell’essere nelle viscere della famiglia. Aprile 2013, negozio dei souvenir dell’acquario di Genova, qualche tempo prima di tornare in Perù a conoscere Samuèl: «Maria, ti ho detto che puoi comprare solo una cosa. Lascia gli altri oggetti a posto per favore». «Ma io, mamma, voglio comprare un regalo anche per il mio fratellino e per la mia sorellina». «Tesoro ti ho già spiegato che arriverà un fratellino o una sorellina, non tutti e due». «Ma io voglio fare un regalo a tutti e due!». «Ma ne arriverà uno solo». «No. Ti dico tutti e due!».
Aprile 2015, quattordici anni dopo avere offerto la propria feconda passione mettendola servizio dei più piccoli, ai due irriducibili toscani toccherà rincontrare Cristo dove, come e quando meno se l’aspettano, ricevendo ancora una volta doni ben superiori alla loro allegra, fragorosa e fedelissima offerta.
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