
Il boicottaggio per finta degli Stati Uniti alle Olimpiadi di Pechino

Manca meno di un mese alle Olimpiadi invernali di Pechino, in Cina, ma nessuno se n’è accorto. Se ne è parlato poco, fin qui, complici le incognite sulla loro effettiva disputa, messa in dubbio dal dilagare della pandemia. Ma il Cio lo continua dire: i giochi si faranno, gli atleti saranno i benvenuti con bolle e tamponi quotidiani. Chi non ci sarà, invece, saranno i rappresentanti di alcuni governi occidentali, su tutti quello americano e inglese, che già a dicembre avevano annunciato il boicottaggio diplomatico dei giochi. Una mossa volta a protestare contro le frequenti violazioni dei diritti umani perpetuate dal governo cinese, in particolare contro gli Uiguri nello Xinjang. Intenzioni ottime, pessima la forma: che impatto può avere, a tutti gli effetti, una protesta simile?
La delegazione americana a Pechino
Fin qui il clamore mediatico che ha riscosso la presa di posizione di Joe Biden ha conquistato le homepage dei giornali a dicembre, per poi cadere nel dimenticatoio. Con gli Usa si erano schierati anche altri stati come Gran Bretagna, Australia e Giappone, un fronte che ha permesso alla Cina di giocare il ruolo della vittima: «Le Olimpiadi Invernali non possono essere il palcoscenico per una provocazione politica», aveva detto il portavoce del ministro degli esteri, Zaho Lijian.«Sarebbe una grave macchia per lo spirito della Carta Olimpica e una grave offesa per un miliardo e mezzo di cinesi».
Dal vuoto in cui era caduto, ecco riemergere il boicottaggio in questi giorni, con la notizia – battuta ancora dal ministero degli Esteri cinesi e confermata dal dipartimento di Stato americano – che in realtà sono arrivate non poche richieste di visto d’ingresso a Pechino da parte di dipendenti del governo americano (si dice quasi 60). Una delegazione standard, si difendono gli americani, che svolgerà azione consolare per atleti e staff, e che in nessun modo costituisce rappresentanza diplomatica.
Un boicottaggio “borghese”
Al di là di ciò, il boicottaggio diplomatico ha tutti i tratti di una presa di posizione effimera, di poco conto, perfino borghese. Altra storia sarebbe stato un boicottaggio totale, con l’assenza dell’intera delegazione di atleti americani alla manifestazione. Ma sarebbe stata possibile? Considerando il peso di sponsorizzazioni e diritti tv sul mercato sportivo sorge più di un dubbio – davvero lo avrebbero concesso? –, oltre al fatto che una simile mossa non avrebbe tenuto conto di ciò che effettivamente sta al centro delle Olimpiadi, cioè gli sportivi. Tutti arrivano da anni di preparazione e sacrificio, far pagare loro una scelta così drastica presa dall’alto sarebbe stato oggettivamente troppo.
L’argomento non è quisquilia: a fine 2022 ci saranno in Mondiali in Qatar e già da mesi si spinge per un boicottaggio dell’evento, in segno di protesta e solidarietà ai tanti operai mandati al lavoro senza sicurezza e tutele, molti dei quali morti nella realizzazione degli stadi. Fin qui, a dire il vero, oltre a qualche maglietta indossata a inizio gara da qualche nazionale non si è visto nulla di concreto, e poco altro probabilmente vedremo.
Olimpiadi e boicottaggi
In generale, la storia intera dello sport è piena di boicottaggi, tra i più famosi certamente quelli delle Olimpiadi dell’80 (a Mosca mancò l’intera delegazione Usa, oltre ad altre nazioni) e dell’84 (a Los Angeles erano assenti invece i sovietici e tutti i paesi del Patto di Varsavia). La domanda resta la stessa: cosa ha prodotto tutto ciò? Ben poco. La BBC, in un articolo pubblicato qualche settimana fa, sottolinea invece dove starebbe la diversità di un “non-boicottaggio”: «Impegnarsi nella competizione sportiva, piuttosto che nel boicottaggio, garantisce l’opportunità di una preziosa diplomazia sportiva e significa controllo internazionale, entrambi i quali possono portare a un cambiamento positivo». La federazione calcistica inglese basa su questo spunto la sua partecipazione ai Mondiali in Qatar.
La “Diplomazia del ping pong”
La strada, di per sé, non è vuota: più volte in passato lo sport è diventato luogo di scambio e dialogo, oltre che di sensibilizzazioni su vicende politiche e diritti umani. Torna in mente proprio quanto accadde nel 1971 tra Usa e Cina: durante i Mondiali di ping pong in Giappone, un giocatore americano – Glenn Cowan – perse il pullman alla fine degli allenamenti, e trovò un passaggio su quello cinese. Il protocollo imponeva agli atleti orientali di non rivolgere la parola a quei “nemici” con cui il loro paese non aveva relazioni dal ’49, anno della Grande Marcia di Mao Zedong. Ma Zhuang Zedong, autentico fuoriclasse del tennis tavolo, trasgredì la regola e chiacchierò con il “collega” americano, regalandogli poi una sciarpa di seta, in uno scambio immortalato (guarda caso…) dai fotografi.
Lo yankee ricambiò, poi, con una maglietta con lo slogan “Let it be”, le foto fecero il giro del mondo, tanto che la squadra americana ricevette un invito a visitare la Cina, diventando così i primi statunitensi a entrare a Pechino nel secondo Dopoguerra. Forse era tutto costruito a tavolino, perché intanto Kissinger e Nixon stavano intrecciando i loro rapporti col paese orientale, arrivando alla storica visita del presidente americano del ’72, culmine di quella che nei libri di storia è chiamata proprio “Diplomazia del ping pong”. Resta, però, la grandezza dei gesti di quegli atleti, uomini semplici lontani anni luce l’uno dall’altro, avvicinati e messi in dialogo dallo sport.
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