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L’argento di Sofia Goggia e le Olimpiadi distopiche di Pechino

I due anni di pandemia, l'autoritarismo cinese, la bolla del Villaggio Olimpico, la neve finta. Ma soprattutto la narrazione sportiva che è diventata elogio del limite e ora non sa più cosa raccontare

Piero Vietti
15/02/2022 - 6:25
Sport
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L'australiana Laura Peel durante la finale di Freestyle alle Olimpiadi di Pechino
L’australiana Laura Peel durante la finale di Freestyle alle Olimpiadi di Pechino (foto Ansa)

E alla fine è arrivata Sofia Goggia: argento in discesa venti giorni dopo l’infortunio al ginocchio. Non il trionfo che avrebbe reso il tutto ancora più memorabile, ma un risultato incredibile, tanto sperato quanto inatteso. Un secondo posto, però, che difficilmente basterà a toglierci di dosso un’impressione strana rispetto a questi Giochi invernali. Non diremo, parafransando il ragioner Ugo Fantozzi, che le Olimpiadi invernali di Pechino 2022 sono una boiata pazzesca, ma più passano i giorni, e si accumulano le gare e le medaglie, meno sentiamo soffiare lo spirito che appena la scorsa estate, con quelle di Tokyo, ci aveva fatto appassionare a sport di cui già non ricordiamo più il nome.

Olimpiadi con poco appeal

Il fatto è che nulla di ciò che succede negli impianti e sulle piste cinesi in questi giorni sembra avere la forza di entusiasmare davvero a livello globale. In Italia ci siamo sforzati di esultare per l’oro nel curling misto, molti giornalisti e intellettuali hanno twittato la loro perché faceva esotico e patriottico, ma la cosa è durata giusto il tempo di intervistare Claudio Amendola per fargli dire «io l’avevo detto» e di far fare a Osho un paio di meme divertenti sullo spazzare i pavimenti di casa.

Già qualche settimana fa la NbcUniversal aveva abbassato della metà le aspettative sul numero di spettatori che avrebbe seguito Pechino 2022, e la cerimonia di apertura è stata guardata da pochissimi americani, solitamente tra i più fedeli davanti allo schermo in queste occasioni. Sul New York Times Lindsay Crouse ha parlato di «Olimpiade distopica»: atleti che sciano su neve finta sparata su pendii aridi in mezzo a paesaggi industriali, robot che preparano da mangiare nei bar del Villaggio olimpico, impianti vuoti e una bolla da cui non si può uscire. I due anni di pandemia alle spalle non aiutano a distrarsi, e il fatto che i Giochi siano nel paese da cui tutto è cominciato e che cerca di combattere il virus con l’autoritarismo peggiora le cose.

Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome Tempi a Caorle per il Premio Luigi Amicone 2023 - Chiamare le cose con il loro nome
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Giochi che «puzzano di declino sociale»

Manca l’ispirazione, scrive la Crouse. Da anni qualunque gesto sportivo, anche il più insignificante, e qualunque atleta, anche il più scarso, trovano il loro momento di gloria nella narrazione mediatica che trasforma tutto in epica, lacrime e sogno. Eppure da Pechino 2022 non si riesce a cavare nulla che non venga dimenticato subito – anche le polemiche interne alla Federazione italiana suscitano poco interesse – e mancano le storie di atleti che superano il proprio limite. «L’attrattiva principale dei Giochi è sempre stata l’ispirazione, la ricerca di sogni impossibili», scrive il Nyt. 

«Due anni dopo l’inizio della pandemia, quando tanti dei nostri sogni sono stati accantonati, questi Giochi non stanno fornendo quel tipo di ispirazione. Invece di mostrare il meglio di ciò che l’umanità può fare, queste Olimpiadi sembrano riflettere ciò che noi non possiamo fare». Sarà il contesto, il mix di inquinamento ambientale, allarme sanitario, corruzione e autoritarismo, fatto sta che «questi Giochi puzzano di declino sociale». Tra ansia, povertà e sfiducia globale nelle istituzioni, non bastano sponsor di stato e aziende che ripetono slogan sul sogno olimpico perché questo si avveri.

Troppe Simone Biles, pochi bobbisti giamaicani

Nel loro piccolo le Olimpiadi invernali hanno avuto i loro momenti indimenticabili, scrive l’opinionista del Nyt: gli sciatori norvegesi eroi nazionali, gli underdog della Nazionale di hockey americana che nel 1980 battono le più forti squadre del mondo, la squadra giamaicana di bob. Il fatto è che queste storie sono sempre più rare perché interessano sempre meno. Certo, ci sono state storie “vecchio stile” (e l’argento di Goggia è una di esse), ma «i momenti atletici che catturano la nostra attenzione collettiva in questi giorni sono abbastanza diversi. Molti di essi riflettono una crescente accettazione dei limiti nelle nostre vite», nota Crouse. 

A forza di esaltare chi è normale, chi molla, chi ammette le proprie debolezze, chi lascia perché non ce la fa più, ci accontentiamo di poco e vediamo meno chi fa imprese eccezionali. Oppure, che è peggio, lo usiamo subito come modello da additare, per cui quella di Sofia Goggia nei titoli dei giornali diventa subito una «lezione» – lo stesso è successo cn il successo di Rafa Nadal agli Australian Open di tennis – come se compito principale dello sport fosse quello di proporre esempi morali di comportamento.

«Abbiamo celebrato Simone Biles la scorsa estate a Tokyo per aver dato la priorità alla sua sicurezza ed essersi ritirata, e venerdì abbiamo condiviso il sollievo della favorita per la medaglia d’oro Mikaela Shiffrin per avere chiuso la sua gara al nono posto», aggiunge Crouse. Così come abbiamo applaudito il campione di snowboard Shaun White che non è riuscito a vincere la sua quarta medaglia ai Giochi ma ha fatto i complimenti ai più giovani che sono arrivati davanti a lui in classifica.

Cosa rimane da raccontare

La pandemia ha abbassato le nostre aspettative, ci ha rivelati più fragili e dunque alla ricerca di un nuovo tipo di ispirazione, dice Crouse, più adatta alla strana epoca che stiamo attraversando. Degli atleti impegnati nelle ultime due Olimpiadi ricorderemo più l’umana accettazione del limite che non il suo superamento, il rispetto del pronostico invece che il suo ribaltamento. Certo, non è colpa loro essersi trovati a gareggiare in questi tempi mesti, dentro a stadi vuoi e – nello specifico di queste Olimpiadi – in un paese come la Cina. L’esaltazione mediatica della normalità sportiva, però, era iniziata ben prima della pandemia: per un po’ ha funzionato, ha reso più “umani” i grandi campioni, impartito lezioni e permesso di fare la morale. Il problema è che a forza di raccontare chi molla è rimasto poco da raccontare.

Tags: CinaOlimpiadi 2022PandemiaPechino 2022Sport
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