
«Natura, virtù, bene comune. Cosa ci ha insegnato MacIntyre»

La scomparsa del filosofo morale scozzese Alasdair MacIntyre (1929-2025) lascia un vuoto intellettuale pari solo alle grandi questioni da egli affrontate in vita. MacIntyre, infatti, rimane una lettura fondamentale non solo per chi si occupa di filosofia morale e politica, ma in generale per chi vuol provare a capire un po’ di più della crisi che attanaglia questa tarda e per certi versi bislacca modernità. Non è importante essere d’accordo con tutte le sue argomentazioni, quanto piuttosto entrare all’interno della sua prospettiva etico-politica. Ne parliamo con uno dei suoi più attenti studiosi italiani, Sergio Belardinelli, collaboratore e amico tempista.
MacIntyre, grazie soprattutto al suo testo forse più importante, Dopo la virtù (1981), è un autore con cui bisogna fare i conti. In un recente articolo che ha scritto sul Foglio lei afferma che si tratta di «uno dei pensatori più importanti del nostro tempo»: quali ne sono i motivi?
Sono almeno tre le questioni fondamentali, sulle quali MacIntyre ha gettato una luce speciale e che lo rendono uno dei pensatori più importanti del nostro tempo: la prima riguarda la natura dell’uomo, la seconda la virtù e la terza il bene comune. Parafrasando il celebre incipit di Dopo la virtù, si potrebbe dire che rispetto a tali questioni sembra davvero che la nostra cultura sia passata attraverso una “catastrofe” che ne ha devastato la memoria. Ciò che resta, come macerie, sono alcune parole, termini etici valutativi, quali “buono”, “cattivo”, “giusto”, “ingiusto”, “virtù”, “bene comune” o espressioni deontiche con cui i superstiti indicano ai loro simili che cosa “debbano” fare in determinate circostanze. Ma ciò che è scomparsa è la concezione dell’uomo dalla quale questi termini traevano il loro significato; è scomparso il contesto socio-relazionale all’interno del quale la vita umana appare ancora come la vita di un “io” che non è soltanto un fascio di ruoli, o una qualche “abilità professionale”, ma una vita unitaria, una vita intera, una biografia valutabile come un “tutto”.
Il filosofo scozzese rivolge la propria critica non a una corrente specifica, ma complessivamente, scrive nel suo capolavoro del 1981, al «fallimento del progetto illuminista». Secondo lui, infatti, l’intera teoria morale contemporanea è caduta preda di un pericoloso emotivismo individualistico che ha frammentato il mondo e l’immagine stessa di uomo. Che cos’è, dunque, il bene dell’uomo di cui parla? Può darsi persona umana senza un telos?
In effetti, uno dei bersagli principali del discorso etico di MacIntyre è rappresentato proprio dal cosiddetto emotivismo, per il quale, vedi Hume, gli enunciati etici sarebbero soltanto l’espressione di “sentimenti”. A questo MacIntyre contrappone un paradigma realista aristotelico, secondo il quale esiste invece una dimensione ontologica intrinsecamente buona, che l’uomo deve realizzare se vuole effettivamente portare a compimento se stesso, diciamo pure, il proprio telos. L’originalità di MacIntyre rispetto ad Aristotele sta nel fatto che la “forma” nella quale l’io realizza se stesso è “narrativa”, non è semplicemente qualcosa, una natura, determinabile a priori. Il soggetto realizza se stesso, la propria identità e il proprio bene nelle diverse “pratiche” della sua vita, a seconda di quanto tali pratiche coincidono con una vita virtuosa.
Parlare di bene ci conduce a enfatizzare un’altra grande questione, quella della verità. Perché è così importante anche, e forse soprattutto in una società liberale?
Non sono sicuro che “bene” e “verità” siano intercambiabili, ma di certo entrambi i concetti sono da ritenersi fondamentali proprio per una società liberale, una società “aperta” e plurale che, in quanto tale, si rifiuta di imporre a tutti la stessa concezione del bene (o la stessa verità), non perché il bene e la verità non esistono (come pensano i relativisti emotivisti), ma perché, stante l’assoluta inviolabilità della dignità e della libertà di ogni essere umano, non è consentito a nessuno imporre ciò che è giusto contro la volontà degli interessati. Molto meglio un errore accettato almeno dalla maggioranza, che una verità imposta con la forza. A tale proposito le molte pagine che MacIntyre scrive nel tentativo di far valere una concezione del bene non relativista, oggettiva, alla quale ispirare la condotta da seguire con i nostri simili, mi sembrano un ottimo antidoto al degrado culturale e istituzionale delle nostre liberaldemocrazie.
Nel suo complesso sistema filosofico un ruolo centrale spetta indubbiamente al concetto di pratica. Che cosa intende MacIntyre con ciò e perché è così importante?
Per sintetizzare al massimo questo concetto conviene partire dalla definizione che ne dà lo stesso MacIntyre: «Per “pratica” intenderò qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei modelli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono». Una pratica è quindi una forma sufficientemente complessa di attività umana “socialmente stabilita”. Per MacIntyre lo sport, lo studio di una disciplina scientifica, la pittura, la musica, il gioco degli scacchi o il lavoro dell’artigiano sono tutte pratiche. Ciò che le accomuna è il fatto che ognuna comporta sia modelli di eccellenza e obbedienza a regole, sia l’esercizio di determinate virtù per conseguirli. Che ci piaccia o no, sono precisamente le virtù a stabilire i criteri in riferimento ai quali “definiamo i nostri rapporti con le persone con cui condividiamo il tipo di finalità e di modelli che ispirano le pratiche”. In questo modo le prescrizioni implicite in ciascuna pratica rimangono oggettive, sorgono logicamente dall’esercizio della pratica senza ridursi affatto all’arbitrio del soggetto. È a partire da pratiche di fatto, anche le più convenzionali, che MacIntyre individua il filo rosso delle norme che oggettivamente stabiliscono la condotta da seguire nel rapporto con i nostri simili.
Un’ultima domanda, quasi obbligata, riguarda la virtù. Un concetto ostico, se non proprio osteggiato da gran parte della cultura contemporanea. «Agire virtuosamente», scrive MacIntyre, «significa agire in base a un’inclinazione plasmata mediante la coltivazione delle virtù». Per un cattolico e liberale, quale lei è, che cosa significa? Libertà e virtù sono nemici o, piuttosto, elementi indisgiungibili da una concezione antropologica sana?
Chi conosce l’incipit dell’Etica Nicomachea sa che il discorso sulla virtù viene preceduto da un’indagine preventiva in ordine alla natura della politica. Trattasi di materia, dice Aristotele, di cui si può avere una conoscenza soltanto “grossolana e approssimativa”, ma questo non significa che il bello e il giusto di cui la politica si occupa esistano “solo per convenzione, e non per natura”. Anzi il fine della politica, agli occhi di Aristotele, è chiarissimo ed è la felicità, il “più alto di tutti i beni raggiungibili mediante l’azione”, “il fine e il principio, ossia la causa di tutto ciò che facciamo”, “una attività dell’anima secondo perfetta virtù”. Per motivi che non sto a dire, MacIntyre forse non sarebbe d’accordo, ma secondo me è precisamente su questa base che un cattolico liberale vede garantite le due istanze che più gli stanno a cuore: da un lato, l’esistenza di un giusto oggettivo e, dall’altro, il massimo spazio per la libertà. Il tutto alla larga dalle tante forme di costruttivismo politico, che in un modo o in un altro pensano che il bello e il giusto possano essere realizzati “scientificamente” a tavolino.
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