Natale in Siria, senza riscaldamento né pane. «Ci resta solo la fede»

Di Redazione
18 Dicembre 2020
Da Damasco a Qamishli, da Aleppo fino a Idlib, dove i cristiani soffrono sotto i jihadisti. «Sarà un Natale di povertà, al freddo, come nella grotta di Betlemme»
siria knaye presepe jihad

«Sarà anche questo un Natale di povertà, al freddo, come nella grotta di Betlemme». Così il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, descrive all’Agensir come sarà il Natale dei siriani. Sono circa 12 milioni gli sfollati fuori e dentro il paese a causa della guerra cominciata nel 2011, famiglie che «vivono come possono, tante sotto le tende, lontano dalle loro case, alcune anche a cielo aperto. Mancano stufe e chi le ha non può accenderle per mancanza di gasolio. Spesso mi capita di vedere nelle strade file interminabili di gente in attesa di comprare del pane a prezzo agevolato dal governo».

«LE SANZIONI STANNO DISTRUGGENDO LA SIRIA»

Ai siriani manca tutto. L’83 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà e non può permettersi «pane, latte, medicine, gasolio» per scaldarsi nell’inverno rigido. Le conseguenze economiche della guerra sono pesantissime e le sanzioni occidentali aggravano la situazione: «Giorni fa un ecclesiastico è andato a inaugurare un panificio a 30 km a nord di Damasco, donato da un Paese europeo», continua il nunzio. «Il forno non funziona già più perché manca il gasolio».

A puntare il dito contro le sanzioni è padre Antonio Ayvazian, parroco armeno di Qamishli, nel nord-est del paese. «Qui ci sono 13 villaggi cristiani armeni sperduti nelle montagne. Fa molto freddo ed è urgente trovare il gasolio per le stufe. L’embargo e le sanzioni internazionali stanno distruggendo la Siria e provocano l’esodo dei cristiani nel silenzio dell’Occidente. Solo la nunziatura apostolica ci è vicina». Ora che si avvicina il Natale, «il senso di abbandono e di solitudine è ancora più grande. Le famiglie non hanno possibilità di fare l’albero e il presepe perché il loro primo pensiero è trovare il pane per i loro figli. Basterebbe un po’ di cibo per donare un po’ di festa a queste famiglie. Con uno stipendio mensile di pochi dollari non si riesce a comprare più nulla. La gente è disperata, ci sono tantissime giovani donne che sono arrivate a vendere la propria verginità per avere di che vivere».

C’É CHI RIMPIANGE LE BOMBE

Anche ad Aleppo la situazione è grave. Come racconta fratel Georges Sabé dei Maristi blu in una lettera fatta pervenire a tempi.it, «quattro anni dopo la fine della guerra ad Aleppo, i suoi abitanti come tutti i siriani continuano a soffrire delle conseguenze di altre guerre che si manifestano oggi: guerra economica, guerra delle sanzioni, guerra della svalutazione della moneta locale e tante altre miserie. Troppe volte ho sentito la gente dire: “Noi rimpiangiamo i tempi in cui le bombe ci cadevano sopra la testa… È vero che avevamo paura delle bombe, ma adesso non stiamo meglio. Oggi le bombe non ci minacciano più ma siamo asfissiati da tutto il resto”. Un amico medico mi raccontava che per completare il trattamento chemioterapico di una paziente gli mancava un farmaco che solitamente il governo siriano forniva gratuitamente. Oggi costa più di 4 milioni di lire siriane. Immaginate cosa significa quando un salario ottimo vale appena 100 mila lire siriane!».

GESÙ SOTTO I JIHADISTI

La situazione più difficile resta quella di chi vive nella provincia di Idlib, nel nord-ovest del paese, l’unica a essere rimasta sotto il controllo dei jihadisti grazie alla protezione della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. A raccontare la vita a Knaye, sotto il dominio di Tahrir al Sham, fazione legata ad Al Qaeda, è il padre francescano Hanna Jallouf:

«Da circa un mese i miliziani che governano qui hanno imposto l’uso della lira turca. I prezzi sono quadruplicati e la gente è disperata. Non sappiamo come fare per aiutare le famiglie. Ci sono regolamenti di conti tra i leader delle fazioni islamiste. Coloro che sono contro Tahrir al Sham vengono eliminati. Ci sono tanti sfollati e rifugiati. Qualcuno prova a rientrare ma i miliziani non lo permettono. Sono 11 mesi che le strade sono chiuse».

«CI RESTA IL DONO DELLA FEDE»

A pochi giorni dal Natale, la comunità cristiana si prepara come può. Come gli altri anni, decorazioni esterne e luminarie sono proibite dai jihadisti. Le croci dalle chiese sono state tolte e sia padre Jallouf che il confratello, padre Louai Bsharat, non possono indossare il saio. Le 300 famiglie cristiane della zona festeggeranno il Natale, ma solo dentro la chiesa: «Il 23 distribuiremo piccoli doni ai bambini. Il 24 e il 25 dopo la messa ci scambieremo gli auguri con qualche confetto. Abbiamo anche realizzato delle croci per abbellire alberi e presepi in casa. Quest’anno non abbiamo mandato i nostri ragazzi, una quarantina in tutto, nelle scuole dei jihadisti così abbiamo potuto anche cantare e fare teatro. Sono piuttosto felici. Grazie a loro possiamo dire di avere un futuro qui».

Festeggiare il Natale, spiega ancora padre Jallouf, «è segno di speranza e di gioia per tutti. La Provvidenza non ci abbandona: quando non ho più nulla da dare dico al Signore, questo è il tuo gregge, chi deve pensarci? Ecco allora che arriva sempre un aiuto». A Qamishli non ci saranno alberi di Natale e presepe, ma «ci resta il dono più grande: la nostra fede cui ci aggrappiamo per continuare a sperare».

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.