Altro che Mussolini, Berlusconi è come Giolitti. Ricordate come finì?

Di Lodovico Festa
14 Aprile 2013
Giolitti e Berlusconi hanno cercato di allargare le basi dello Stato. Così hanno scatenato la spinta alla disgregazione dell’establishment

Forse nelle prossime settimane si riuscirà a evitare la radicalizzazione di uno scontro politico che agitando la galera per il capo del centrodestra aveva assunto addirittura qualche tono golpista. Bene. Si tratterà, però, comunque di non accontentarsi di qualche pur utile risultato e di riflettere invece accuratamente sui fattori evolutivi di una situazione italiana che qualcuno esagerando e mettendosi a parlare di piazzale Loreto è arrivato a paragonare alla guerra civile innescata dalla Seconda guerra mondiale. Vere e proprie sciocchezze: Silvio Berlusconi non c’entra niente con Benito Mussolini, è un leader democratico che negli ultimi venti anni ha vinto e perso libere elezioni, e comunque – al di là di suoi comportamenti privati talvolta assai poco convenienti – è stato sempre un perseguitato e non un persecutore. Più corretto, invece, un paragone con Bettino Craxi, politico democratico fatto fuori per via giudiziaria. Anche se comparazione più interessante è quella con Giovanni Giolitti, anche lui perseguitato giudiziariamente e indicato da Gaeatano Salvemini – che poi quando arrivò il fascismo si pentì dell’accusa – come guida di un ministero della malavita.

BASI DELLO STATO. Naturalmente è necessario mettere in evidenza le differenze: il liberale piemontese era un politico a tutto tondo (non privo di spregiudicatezza nell’uso del potere), con una solida esperienza e cultura di governo e non era dunque certamente un imprenditore dalla vita spesso eccessivamente sfrenata e un po’ troppo annoiato dai concreti compiti della direzione dello Stato. Però al di là delle differenze il tratto comune è dato dal fatto che sia Giolitti sia Berlusconi hanno cercato di allargare le basi dello Stato: l’uno confrontandosi con i “neri” di Luigi Sturzo e i “rossi” di Filippo Turati, l’altro dando rappresentanza a ceti produttivi che anche nella pur inclusiva Italia democristiana delegavano (anche a causa della cogenti esigenze anticomuniste) piuttosto che partecipare. E sono stati tali tentativi che hanno irritato innanzitutto gli “establishment” nazionali: quello di inizio ’900, piemontese e di una certa aristocraticamente arrogante borghesia milanese, quello consunto degli anni Novanta e Duemila.
Non solo. A rafforzare entrambi questi elitismi hanno avuto un particolare peso sistemi di eccessiva influenza straniera. Così tra il 1914 e il 1915, quando Parigi d’intesa con i Savoia organizzò tra piazza e palazzo un pronunciamento contro la maggioranza parlamentare che ricorda per certi versi quel che è successo in questi anni e sabotò lo sforzo giolittiano di tenersi fuori dalla Grande guerra (scelta che avrebbe cambiato infinitamente in meglio la nostra storia). E così, con più di un’analogia con il primo ’900, anche nel 2011 l’Italia (certo pure per errori di Berlusconi) è divenuta terreno di scorrerie di influenze ora tedesche ora americane nonché di una finanza internazionale che sarebbe meglio fosse governata piuttosto che mettersi a governare. Come un secolo prima, l’Europa in questo senso ha pagato la crisi della sovranità nazionale di Roma che se non minata avrebbe potuto fornire un punto di mediazione utile tra forze confliggenti spesso senza adeguato raziocinio.

RIFORMIAMO LA COSTITUZIONE.
 Se questo è quel che è avvenuto, al di là dei rallegramenti perché si eviteranno esiti peggiori, resta intera la preoccupazione per il futuro. Certo un presidente della Repubblica ragionevole sarà assai meglio di uno espresso dai tagliagole, certo l’avanzare di una leadership di Matteo Renzi sulla sinistra rassicurerà chi ha assistito sconcertato al consegnarsi di Pier Luigi Bersani al forcaiolismo di Repubblica, certo prendere tempo per fare i conti con le ragioni della protesta grillina è senza dubbio utile. Ma la questione di fondo al di là dei rimedi d’emergenza resterà tutta intera di fronte a noi. Gli ordinamenti fondamentali dello Stato (presidenza della Repubblica, esecutivo, parlamento, enti territoriali, sistema giudiziario) definiti dalla Carta del ’47 sono entrati in crisi finita la Guerra fredda che ne definiva elementi decisivi, e, se non ci si darà un nuovo assetto che consenta nel rapporto tra cittadini e Stato una vera sovranità nazionale (sia pure inquadrata nell’Unione Europea) fondata sulla sovranità popolare, continueranno a prevalere le spinte alla disgregazione favorite da un piccolo establishment finanziario disgraziato (quello che produce personalità mediocri come Mario Monti) e da eccessive influenze straniere interessate a tenere sotto controllo una grande nazione come la nostra. Parlare solo di riforma elettorale, di qualche pannicello istituzionale, di costi della politica, quando il problema è trovare un accordo tra le forze fondamentali della società su come deve essere organizzato uno Stato democratico, liberale, solidale come definito nella prima parte ancora valida della Costituzione, è come curare un cancro con l’aspirina. Alla fine il male prevale e togliendo di mezzo i Giolitti, si apre la strada ai Mussolini.

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