La morte della giornalista Shireen Abu Akleh ha riunito per la prima volta tutti i palestinesi

Di Amedeo Lascaris
22 Maggio 2022
L’ultimo atto del conflitto arabo-palestinese e le conseguenze dell’uccisione della corrispondente di Al Jazeera, donna e cattolica. Parla monsignor William Shomali, vicario Patriarcale per la Giordania
Shireen Abu Akleh Palestina Israele
Una donna con due bambini passa davanti al murale che ricorda la giornalista Shireen Abu Akleh a Betlemme (foto Ansa)

Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese di religione cattolica con cittadinanza statunitense uccisa l’11 maggio scorso a Jenin, in Cisgiordania, mentre copriva un’operazione delle forze di sicurezza israeliane in un campo profughi «è divenuta una sorta di leggenda», riunendo «tutti i palestinesi», striscia di Gaza inclusa. Lo afferma il vicario Patriarcale per la Giordania, monsignor William Shomali, che in un’intervista a Tempi racconta la situazione in Israele e nei Territori palestinesi dove negli ultimi mesi si è assistito a una nuova escalation di tensione con attentati ai danni della popolazione israeliana e conseguenti operazioni delle Forze di difesa dello Stato di Israele (Idf) nei campi profughi in Cisgiordania.

L’eco internazionale della morte di Shireen Abu Akleh

La morte di Shireen Abu Akleh a Jenin mentre copriva per l’emittente qatariota Al Jazeera un’operazione delle forze di sicurezza israeliane in un campo profughi ha scosso la comunità internazionale, riportando il conflitto israelo-palestinese all’interno del dibattito politico ormai sostanzialmente concentrato sulla guerra in corso in Ucraina, almeno per quanto riguarda i media occidentali. I murales che raffigurano la giornalista sono comparsi in diverse città della Cisgiordania e a Gerusalemme est, elevando la figura di una donna semplice che non proviene dalla classe politica dominante e che non appartiene a una fazione politica, e per lo più cattolica, a simbolo della questione palestinese, fatto forse mai avvenuto dall’inizio del conflitto.

«Shireen è divenuta una sorta di leggenda, una icona. I musulmani hanno partecipato al suo funerale pur conoscendo la sua religione. La donna ha avuto tanti funerali popolari, cominciando da Jenin fino a Gerusalemme, passando da Naplouse, Ramallah, e molti campi di profughi sul passaggio», sottolinea Shomali. La morte di Shireen Abu Akleh è avvenuta nel pieno di un’escalation di violenza che ha nuovamente sconvolto Israele e Territori palestinesi.

Shomali: «Il conflitto non è più solo tra ebrei e musulmani»

Quattordici persone in Israele sono state uccise in quattro attacchi terroristici dal 22 marzo. Tre degli attacchi – Bnei Brak, Tel Aviv ed Elad – sono stati commessi da palestinesi dell’area di Jenin. Gli altri due sono avvenuti nelle città israeliane di Beersheba e Hadera sono stati rivendicati dallo Stato islamico. L’esercito israeliano ha aumentato di molto le sue operazioni a Jenin negli ultimi mesi e ancora di più dopo gli attacchi, con almeno 22 morti tra i palestinesi nel solo mese di aprile. «La tensione è stata alta negli ultimi tre mesi con molti morti sia da parte israeliana, uccisi da palestinesi in azioni violente, a cui è seguita una risposta israeliana contro i campi profughi, in particolare a Jenin», luogo da cui provenivano alcuni dei commando che hanno commesso gli attacchi.

Secondo il prelato la morte della giornalista di Al Jazeera ha trasformato lo scontro in una guerra mediatica combattuta su quotidiani, siti, social media, televisioni, favorita anche dalla notorietà dell’emittente qatariota e dal fatto che la giornalista proveniva dalla città di Gerusalemme est, che era una giovane donna che il popolo vedeva sullo schermo quasi ogni giorno, da più di 25 anni. «Non era mai capitato che il mondo intero fosse così coinvolto in questa tensione», osserva monsignor Shomali, ricordando anche come l’evento abbia avuto forte eco all’interno dello Stato di Israele con la partecipazione al confronto di parlamentari arabo-israeliani. Prima della sua morte tragica, «il conflitto sembrava essere solo tra ebrei e musulmani». La morte di Shireen Abu Akleh, che proveniva da una famiglia cattolica, ha assunto una dimensione “palestinese”, travalicando le appartenenze religiose.

«La questione palestinese non è morta»

Particolarmente scioccanti sono state le immagini trasmesse lo scorso 13 maggio che mostrano gli agenti della sicurezza israeliani che assaltano la folla riunitasi davanti all’ospedale Saint Joseph di Gerusalemme per trasportare il feretro della giornalista in corteo nella vicina cattedrale greco-cattolica di Nostra Signora dell’Annunciazione. Nell’azione condotta dalle forze di sicurezza israeliane, condannata con forza dalle chiese di Gerusalemme, la bara con all’interno il corpo di Shireen Abu Akleh ha rischiato più volte di cadere a terra. Il fatto e avvenuto davanti all’ospedale francese, dove c’erano numeri giornalisti, in un’ora di punta. Le telecamere dell’ospedale hanno potuto registrare tutti i dettagli.

Secondo il prelato, questa morte ha riportato con forza a galla un conflitto che non trova una soluzione da oltre 74 anni. «Noi cristiani siamo per una soluzione che dia una vera pace a tutti. Ma non una pacificazione provvisoria o falsa, che non durerà. La morte di Shireen ha riportato alla luce il problema che dopo la guerra in Ucraina era uscito dal dibattito pubblico. Ora se ne parla nuovamente. Non è morta la questione palestinese, perché vi è un popolo palestinese che vuole vivere».

Le indagini sull’uccisione di Shireen Abu Akleh

Intanto, prosegue il dibattito sulle circostanze che hanno portato alla morte della giornalista. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) e diversi Paesi della regione, tra cui il Qatar – proprietario di Al Jazeera – accusano le Idf di aver ucciso la giornalista con un proiettile calibro 5,56 × 45 millimetri solitamente impiegato da fucili d’assalto M16 e M4, entrambi impiegati sia dalle Idf che da molti gruppi armati palestinesi.

Il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas ha rifiutato di condurre un’indagine congiunta con Israele, sostenendo di essere intenzionato a presentare il caso davanti alla Corte penale internazionale e rifiutandosi di consegnare il proiettile agli israeliani per ulteriori esami. Da parte sua, l’esercito israeliano, dopo aver addossato la responsabilità ai miliziani palestinesi, ha fatto un passo indietro, sostenendo che senza il proiettile attualmente conservato dall’Anp non è possibile determinare l’origine della sparatoria che ha ucciso la giornalista.

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