«Milano è la capitale dei senza tetto. Così li aiutiamo a riprendere in mano la loro vita»

Di Chiara Rizzo
27 Novembre 2014
Paolo La Marca coordina il progetto sperimentale in Italia per gli homeless: «Tra i clochard tanti nostri connazionali, rimasti senza speranza»

«Alla fine del 2013 la Caritas ha stimato che tra Milano e l’hinterland ci sono tredicimila persone senza fissa dimora. A Roma stima che ce ne siano circa settemila. È molto difficile dare informazioni precise sulla nazionalità dei senza dimora. Da tempo lavoro in centri di accoglienza legati alla Fondazione Progetto Arca e posso rispondere sulla base della mia esperienza: nel centro residenziale più grande di Milano, all’inizio del 2013, su 300 persone circa 45 erano italiane. Alla fine del 2013 gli italiani erano raddoppiati: 91. Il numero di italiani senza dimora è sensibilmente aumentato».
Queste le parole a tempi.it di Paolo La Marca, operatore a Milano nell’accoglienza degli homeless per la Fondazione Arca e responsabile del nuovo progetto della fondazione. Si chiamerà Housing first ed è una sperimentazione in Italia, con lo scopo innovativo di ribaltare il tradizionale canone dell’accoglienza puntando tutto sulla persona e la sua autonomia, tagliando i costi del welfare.

«HANNO PERSO TUTTO NEL GIRO DI UN ANNO». Ciò che colpisce nella situazione dei clochard milanesi, spiega La Marca, non è solo l’aumento numerico delle presenze italiane, ma anche le loro storie. «Si tratta di persone che, fino ad un anno prima, avevano una famiglia, un lavoro e un reddito. Ma spesso il reddito serviva a sopravvivere sulla soglia della sostenibilità, per pagare mutuo, bollette e spese vive. È bastato un imprevisto, come la mancanza di lavoro o un divorzio, per perdere all’improvviso tutti i riferimenti e finire velocemente senza casa. Ciò è accaduto nel 20 per cento dei casi. La fascia d’età più rappresentata è tra i 41 anni e i 60 anni. Circa il 10 per cento delle persone che assistiamo ha tra i 18 e i 25 anni, sono anche italiani. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, questi ragazzi non finiscono in strada per problemi di tossicodipendenza, ma per violenze subìte dai genitori o per famiglie distrutte da separazioni e problemi».
Quel che ha colpito La Marca è che, parlando con gli italiani, ha notato in loro un forte senso di «straniamento. Erano come spersi, e non avevano più la capacità di progettare o sperare nel futuro. La perdita che li aveva portati in strada era stata prima di tutto umana: non avevano persone a cui chiedere aiuto. L’unico loro orizzonte di vita è pensare a come mettere insieme il pranzo con la cena».

IL PROGETTO. Housing first, la strada con cui ora si cerca a Milano di dare una risposta a questo bisogno, è un progetto nato a New York negli anni Novanta. «Di solito per i senza dimora si procede per gradini, dalla strada si passa al dormitorio, e solo in un ultimo momento all’abitazione. In questo caso, invece, si lavora per dare alla persona un grado di autonomia il più alto possibile». La sperimentazione a Milano prevede 3 appartamenti destinati a 3 persone e che saranno accompagnate in un percorso da un équipe di esperti, costituita da un coordinatore, uno psicologo, un operatore-assistente sociale e un educatore. Il costo stimato è di 50 mila euro per due anni, e verrà sostenuto interamente dalla Fondazione Arca.
Housing first è già stato sperimentato con successo anche in Portogallo, Ungheria, Danimarca, Francia. In Danimarca l’assistenza agli homeless può incidere sulle casse dello Stato (comprendendo oltre ai dormitori anche voci come l’assistenza medica) per 70 mila euro all’anno a persona, mentre in Francia si stima un costo di 35 mila euro all’anno. Housing first in Danimarca è costato invece 28 mila euro all’anno; Oltralpe tra i 16 e i 19 mila euro. La percentuale in Europa delle persone che alla fine del percorso sono riuscite a mantenere la casa, pagandola di tasca propria, è dell’80 per cento.

RITORNARE ALL’AUTONOMIA. «L’elemento vincente – spiega La Marca – è che chiediamo ai nostri ospiti di partecipare attivamente al loro percorso, per ritornare ad una situazione dove non si ha più bisogno. È previsto un contributo del 30 per cento del reddito al pagamento della casa. Si obietterà che se si è senza dimora, il reddito sarà zero. Qualora sia così, il 30 per cento di zero resterà zero all’inizio e, quando si troverà un lavoro, si inizierà a pagare. Ma ci sono anche casi di persone senza dimora che hanno dei piccoli lavori temporanei, e sono più di quelle che si immagina, o che hanno un sussidio di invalidità di circa 300 euro. In quel caso, chiediamo il piccolo contributo rapportato alla singola situazione, come un primo passo di responsabilità».
Il progetto non offre solo la casa. «Stipuliamo un contratto vincolante con la persona. Chi è homeless si trova nella condizione di “blocco anagrafico” e per lo Stato è come se non esistesse. Allora richiediamo una nuova carta d’identità, il codice fiscale e con essi si ripristina anche l’assistenza sanitaria di base e l’assistenza sociale. Il secondo passo, che può avvenire in parallelo, è quello della ricerca di un lavoro. Insegniamo loro a stendere un curriculum, a consultare internet, ad avere a che fare con le agenzia interinali. Il terzo passo è il recupero della socialità: imparare a conoscere il quartiere in cui si abita, utilizzare i mezzi pubblici per girare la città. Si va a fare la spesa insieme, si programma la settimana, s’impara a gestire il denaro. L’obiettivo è arrivare ad un’integrazione il più completa possibile, sino ad un’autonomia lavorativa e reddituale.

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