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Londra, l’ultima Olimpiade del nostro mondo

Da più di un secolo i Giochi segnano lo spirito del tempo. E oggi per accendere la torcia ci vogliono i soldi che l'Occidente non ha più.

Fred Perri
13/08/2012 - 8:03
Sport
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Pubblichiamo l’articolo uscito sul numero 32-33/2012 di Tempi.
Un gruppo di giornalisti appena arrivato a Pechino, nella torrida domenica che precedeva l’inizio dei Giochi della 29esima Olimpiade, venne scaricato, boccheggiante e sudato, davanti all’hotel che lo avrebbe ospitato per le successive tre settimane. Distrutti dal viaggio intercontinentale e dal fuso pensarono di vedere triplo quando notarono che il metal detector posto all’ingresso dell’albergo non era ad entrare, ma ad uscire. Sì, proprio così, a Pechino nel 2008, in ogni albergo ufficiale, di quelli per i media, gli atleti e i dirigenti, il controllo di sicurezza per il centro stampa/televisivo e per gli impianti, veniva effettuato direttamente nella hall dell’hotel. Da lì si usciva da una porta e si saliva direttamente sul bus, che era in un recinto circondato da transenne e controllato. In questo modo si evitavano code bibliche agli stadi. Geniale.

Perché a Londra non l’hanno fatto? Perché nessun paese occidentale si potrebbe permettere una cosa del genere. Sarebbe dispendioso, oneroso, sarebbe una spesa folle, in manodopera e strumenti (i metal detector costano).

Questo è il segno che le Olimpiadi del futuro, per mantenere un livello di assoluta eccellenza, potranno essere organizzate solo da paesi appartenenti all’area delle economie emergenti, a quelle che ora hanno le palanche, a quelle dove il costo del lavoro incide per tre vecchie lire e l’opposizione viene messa a tacere se pretende che queste cifre, invece che per impianti faraonici e destinati al nulla, vengano utilizzate per migliorare la qualità della vita della popolazione. E quindi protesta.

Per questo non stupisce che i Giochi del 2016 siano stati assegnati a Rio de Janeiro e tra le candidate per il 2020 (da cui Monti ha sfilato Roma) c’è una sola capitale europea, Madrid, e non si capisce per quale ragione dovrebbe essere preferita a Istanbul, Baku, Doha (il Qatar organizzerà i Mondiali di calcio del 2022, cosa gli costerebbe riempire di impianti il deserto, tra una trivella e l’altra?) e Tokyo. Per come stanno messi gli spagnoli non si capisce come possano mettere in piedi un’Olimpiade. In ogni caso, come dice un gruppo di nostri filosofi di riferimento, i Nomadi, “noi non ci saremo”. Ma questa è un’altra storia.

Qui facciamo un breve ritratto dei Giochi Olimpici sbarcati nel ventunesimo secolo, nel terzo millennio. Riassunto delle puntate precedenti. Il punto più alto dell’età dell’innocenza dei Giochi Olimpici fu a Roma 1960. Non è un caso che quell’edizione si svolse nella città (e nel periodo) della Dolce Vita, di Vacanze romane, del grande e luccicante set cinematografico di Hollywood sul Tevere, con Cinecittà che sembrava gli Universal Studios. Quei Giochi, quelli di Cassius Clay e Nino Benvenuti, degli occhiali di Livio Berruti e dei piedi scalzi tra le vestigia di Roma antica di Abebe Bikila, furono quelli più intensi, furono i Giochi «che cambiarono il mondo» come racconta David Maraniss nel suo libro Roma 1960. Gli atleti tedeschi della Germania occidentale e orientale gareggiarono insieme per l’ultima volta prima del 1992. Il Muro di Berlino stava per essere costruito, la Guerra Fredda stava per entrare nella sua fase più cupa, in Vietnam già si combatteva, anche se l’escalation non era ancora cominciata. Era un mondo che si stava frantumando quello che si incontrò a Roma e visse quindici giorni di memorabile oblio. Fu l’ultima Olimpiade in cui guerre e inimicizie si fermarono. Poi venne spento il tripode e con la fiamma se ne andò l’innocenza. Da lì si precipitò verso i tumultuosi anni Settanta, preparati dall’Olimpiade di Città del Messico, il 1968 dei Giochi della protesta, quelli con i duecentisti Smith e Carlos con il guanto nero ad avvolgere il pugno chiuso contro il razzismo, per le Pantere Nere, ma soprattutto con il massacro di Tlatelolco a Plaza de la Tres Culturas. Il 2 ottobre (l’Olimpiade sarebbe cominciata il 12) 15 mila persone, soprattutto studenti, scesero in piazza per una delle numerose manifestazioni di quel periodo che tendevano anche ad approfittare dell’attenzione del mondo sul Messico per chiedere libertà e riforme. La polizia e l’esercito arrivarono con i blindati. Non si seppe mai quanti furono i morti. Secondo la polizia meno di 50, secondo il movimento degli studenti almeno 300.

Si sa tutto, invece, di quello che accadde il 5/6 settembre 1972 a Monaco, nella palazzina della delegazione israeliana. La sicurezza era stata mantenuta molto bassa, anche perché i tedeschi non volevano far venire certi “ricordi” al Mondo (la Seconda Guerra Mondiale era finita da meno di trent’anni). A Monaco tramontò definitivamente l’ideale decoubertiniano di riproporre nel mondo d’oggi il sistema greco dell’Olimpiade che blocca i conflitti. Il conflitto entrò nei Giochi e fece una strage: undici atleti che erano andati a Monaco per il loro sogno di sport morirono in modo assurdo (anche per l’inadeguatezza della polizia tedesca). Da allora l’Olimpiade è blindata. Metal detector, telecamere, villaggi olimpici controllati a vista, missili sui tetti, squadre speciali nascoste in innocui camper da gitanti pronte a intervenire, accrediti vagliati dai servizi segreti.

Dopo l’Olimpiade delle stragi, vennero quelle dei boicottaggi. Nel 1976 a Montreal non si presentarono gli africani per protestare contro la presenza del Sudafrica dell’apartheid. Il 16 giugno il regime bianco aveva soffocato nel sangue la rivolta degli studenti contro la legge che introduceva l’afrikaans come lingua obbligatoria in tutte le scuole del paese. Migliaia di studenti di colore, di ogni ordine e grado manifestarono per le strade. La polizia rispose sparando. Hector Pieterson, un tredicenne di Soweto, venne ucciso diventando il simbolo della lotta dei giovani contro la segregazione.

Il razzismo e i due blocchi
Pochi mesi dopo, gli stati africani decisero di boicottare l’Olimpiade. Lo stesso avvenne nel 1980 a Mosca, quando gli Stati Uniti non si presentarono come ritorsione all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Quattro anni dopo, a Los Angeles, furono i paesi del blocco comunista (Romania esclusa: Ceausescu, forse il peggiore di tutti, recitava il ruolo di libertario) a non andare. Ma il mondo stava cambiando, c’era un Papa polacco a Roma e, soprattutto, un presidente a Mosca deciso ad avviare una serie di riforme. Così, dopo 16 anni, il mondo si trovò riunito a Seul, attorno alla torcia olimpica.

E cominciarono le Olimpiadi moderne. Quelle dei professionisti finalmente ammessi, dei vari Dream Team, del calcio, del tennis, ma soprattutto delle palanche e degli sponsor. Una macchina da guerra commerciale che rende ricchi pochi e non cambia la vita di molti, come sta dimostrando quest’edizione londinese in cui i commercianti protestano anche perché, con i due sport più importanti (atletica e nuoto) sistemati nel periferico Olympic Park di Stratford, lo shopping compulsivo non è così compulsivo per le vie del centro. Inoltre, per via dell’affollamento e del traffico, molti londinesi e molti dei turisti estivi non olimpici sono stati convinti ad andare altrove. Gli inglesi, poi, non hanno voluto fare la fine dei greci. I costi dell’Olimpiade del 2004 hanno inciso non poco sul default dello stato greco. A Londra sono stati attenti. La carta è stata abolita, tutto passa attraverso internet, si fanno molti pezzi di strada a piedi, molte code per il bus, c’è la fissazione per la raccolta differenziata a punti tali di finezza che ci vuole una laurea in ecologia per capire dove buttare gli avanzi delle orride mense che affollano il Parco Olimpico. Per risparmiare corrente gli ascensori non hanno i tasti dentro, ma fuori. Ognuno seleziona il piano dove deve andare e basta. Negli uffici, dopo 20 minuti senza persone, le luci si spengono automaticamente. Gli inglesi hanno risparmiato anche sul villaggio per la stampa: nel senso che non l’hanno fatto. A Londra un buco per dormire, anche a poche sterline, lo trovano tutti.

Poi ci sono le furbate. Non si possono introdurre bottigliette e altri contenitori di liquidi. Per la sicurezza? No, per lo sponsor “gassato” che ha il monopolio delle bibite dentro il villaggio. Però neanche il bagno schiuma, puoi portarti. A parte che le docce non ci sono, c’è un altro sponsor, una multinazionale che possiede, tra gli altri, una famosa azienda di prodotti di questo tipo. Un giorno, ai giornalisti che erano andati a una conferenza stampa organizzata dall’Adidas, erano stati regalati dei prodotti, shampoo, bagno schiuma eccetera. Hanno dovuto abbandonare tutto al di qua del metal detector. Ce n’era una montagna accatastata. L’indomani i tizi al controllo di sicurezza erano tutti cotonati e profumatissimi, chi al tiglio, chi alla mela verde.

Questa è l’Olimpiade del terzo millennio, una gigantesca industria di consenso e di soldi che il Cio amministra gelosamente, attraverso i suoi membri, ai quali tutte le porte sono aperte, anche se spesso fanno delle birichinate, come farsi corrompere da questo e da quel concorrente. In ogni caso l’Olimpiade è tornata a Londra per la terza volta, dopo il 1908 e il 1948. Nel primo caso entrò come “riserva” di Roma, che aveva ottenuto l’organizzazione del 1908 a cui, però, aveva dovuto rinunciare per i danni prodotti dall’eruzione del Vesuvio nel 1906. Londra riebbe i Giochi nel 1948, i primi dopo la Seconda Guerra Mondiale. Era un segno di rispetto nei confronti degli stremati vincitori del conflitto con la Germania nazista, quelli che avevano resistito, con Winston Churchill e il suo sigaro, anche quando erano rimasti soli. Li chiamarono “Austerity Games”. In città c’erano ancora tracce evidenti dei cinque anni di sangue, sudore e lacrime. Cibo, vestiti e benzina erano ancora soggetti al razionamento. Non c’era il Villaggio Olimpico, ma i membri di quella che ora viene chiamata “Famiglia Olimpica” (funzionari, atleti, ospiti vip, media) erano alloggiati nelle caserme dell’esercito e della Royal Air Force.

Adesso i membri Cio stanno nell’albergo più lussuoso della città, hanno un attaché come i generali di corpo d’armata, un autista e viaggiano nelle corsie olimpiche. Adesso è tutto un inchino e un incontro, tutti se la cantano e se la suonano. Ma intorno a loro, ed a noi, il mondo è di nuovo cambiato e dopo Pechino tutto il resto è mezza collina. La piscina di Pechino, fatta a squame e che cambiava colore in continuazione, come un serpente infido, è ancora là inutile e bellissima. Quella di Londra, invece, verrà smontata e ne rimarrà solo la parte centrale. Lo stadio dell’hockey su prato (disciplina per noi oscura) e quello della Bmx sono stati costruiti con i ferrotubi e verranno impacchettati alla fine dei Giochi.

L’inevitabile paragone con Pechino
Se Pechino voleva dare un segnale all’Occidente non l’ha dato quattro anni fa, ma ora. Chi era in Cina nel 2008 fa inevitabilmente dei paragoni. E se la cerimonia d’apertura, con Dickens e Shakespeare, Mary Poppins e Harry Potter, 007 e mister Bean, i Beatles e i Rolling Stones, forse è risultata più vicina al nostro modo di vedere e di pensare, l’Olimpiade all’occidentale tramonta qui. Non possiamo reggere il passo con gente come i cinesi che possono spendere e spandere e fare l’Olimpiade perfetta. A quelli di Londra è successo come a tutti i comitati organizzatori: sono partiti con un budget di 4,2 miliardi di sterline, si sono trovati in un niente a 8,4, con la gente che piantava i chiodi negli impianti a pochi giorni dalla cerimonia d’apertura. La sera del 12 agosto il sindaco di Londra, Boris Johnson, consegnerà la bandiera olimpica a quello di Rio de Janeiro e il presidente del Cio (uscente) Jacques Rogge, grigio chirurgo belga, dovrà dire se questi sono «i più grandi Giochi di sempre», la formula quasi sempre usata. Ma qualsiasi cosa dica, i Giochi all’occidentale muoiono a Londra qua. Quelli del domani saranno un’altra cosa. E forse qualcuno, tra qualche anno, ci racconterà l’effetto che fa l’Olimpiade a Baku. Noi, a Dio piacendo, la guarderemo sereni e un po’ nostalgici – da un punto di vista sportivo, questo resta un evento emozionante, il più grande, più dei Mondiali di calcio – davanti alla tv con le pantofole, la frittatona di cipolle, la birra gelata e, con il conforto di una digestione ancora efficiente, il rutto libero.

Tags: crisilondra 2012Olimpiadipechino 2008rio 2016
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