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L’eutanasia di un Ratzinger

Anche il cugino Down del futuro papa fu ucciso dal Terzo Reich perché difettoso. Ecco di cosa parla Benedetto quando dice che la vita è sacra

Lorenzo Fazzini
25/01/2011 - 18:15
Cultura
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Ripubblichiamo un articolo del 2008 di Lorenzo Fazzini che parla delle pratiche eugenetiche naziste sotto cui cadde anche un cugino di Benedetto XVI.

«IL NAZIONALSOCIALISMO non è nient’altro che un’applicazione della biologia». Ovvero la messa in pratica, su scala politica, economica e finanche sanitaria, del principio che esistono vite “degne” e altre che invece sono “indegne” di essere vissute. Tale lapidaria ammissione del gerarca nazista Rudolf Hess, risalente al 1934, poco dopo la presa del potere da parte di Hitler, illumina la prassi dell’eutanasia di Stato nel Terzo Reich, sancita dalla celebre “Operazione T4”, chiamata così dall’ufficio al numero 4 di Tiergartenstrasse, nel quartiere di Charlottenburg, a due passi da Berlino, dove il Führer sancì – siamo nel 1939 – l’eliminazione fisica degli infermi e dei malati di mente da parte della burocrazia statale germanica. Una conseguenza logica, del resto, delle posizioni che il caporale austriaco aveva già fatto presenti in tempi non sospetti, nel suo Mein Kampf del 1925, in cui si augurava un impegno dell’ente pubblico per «l’annientamento delle vite che non valgono la pena di essere vissute». Così proseguiva Hitler: «Lo Stato deve fare in modo che solo chi è sano generi figli e che sia scandaloso mettere al mondo bambini quando si è malati o difettosi».

L’indagine di Brennan Pursell
Anche Joseph Ratzinger venne toccato nei suoi affetti familiari dalla macchina di
morte del regime nazista contro “i malati o i difettosi”. Il futuro Papa aveva un cugino, poco più giovane di lui, nato con la sindrome di Down. Nel 1941– Joseph aveva 14 anni – alcuni “medici” nazisti vennero nella casa del giovinetto, nella Baviera sud-orientale, e informarono gli zii di Ratzinger sulle nuove disposizioni del Terzo Reich, norme che proibivano ai figli handicappati di rimanere coi propri genitori. Di fronte alle vibrate proteste dei familiari, gli inviati del Reich si mostrarono inflessibili: portarono via il ragazzino e nessuno lo vide mai più. Solo
più tardi la famiglia ricevette la notizia che il piccolo era morto. Il particolare, ad oggi inedito, è stato svelato da Brennan Pursell, giovane storico americano, docente alla DeSales University in Pennsylvania che – curiosità – da protestante ha fatto il suo ingresso nella Chiesa cattolica nel monastero benedettino di Metten, nella terra di Benedetto, la Baviera. Nei due anni di ricerca per scrivere Benedict of Bavaria. An Intimate Portrait of the Pope and His Homeland (CirclePress, 240 pagine, 24,50 dollari), uscito a marzo, Pursell, grazie al suo fluente tedesco, ha potuto incontrare conoscenti e parenti di Benedetto XVI e rivelare così il particolare inedito di quella “ferita” che il regime nazista inflisse al giovane Joseph con il rapimento e la soppressione fisica del cugino Down.

Il principio (non) negoziabile
Un’esperienza, questa, che parrebbe aver lasciato una traccia profonda nel pensiero e nella visione del teologo, vescovo e quindi pontefice tedesco. Basti pensare alla sua celebre formulazione del “principio non negoziabile” della difesa della vita umana “dal suo concepimento alla sua morte naturale”. Questo passaggio del discorso di Benedetto XVI durante il suo viaggio in Austria, nel settembre 2007, pronunciato davanti alle autorità pubbliche, ben illumina la grande sensibilità del pontefice per il tema
della dignità della persona e l’intangibile valore della sua vita, anche se segnata dalla
disabilità o dalla sofferenza: «Una grande preoccupazione costituisce per me anche
il dibattito sul cosiddetto “attivo aiuto a morire”. C’è da temere che un giorno
possa essere esercitata una pressione non dichiarata o anche esplicita sulle persone
gravemente malate o anziane, perché chiedano la morte o se la diano da sé. La
risposta giusta alla sofferenza alla fine della vita è un’attenzione amorevole, l’accompagnamento verso la morte – in particolare anche con l’aiuto della medicina palliativa – e non un “attivo aiuto a morire”». La prassi burocratica nazista prevedeva anche l’invio di una comunicazione ai genitori per informare del decesso del familiare disabile. Come spiega lo storico Lorenzo Baratter nel suo Le Dolomiti del Terzo Reich (Mursia), «solerti funzionari si apprestavano a riempire gli spazi vuoti delle lettere standard di condoglianze ai parenti: “Data la grave malattia psichica di cui soffriva il deceduto, la sua esistenza era diventata un’immane sofferenza di cui la morte lo ha liberato”». È plausibile che anche gli zii del futuro papa abbiano ricevuto una tale missiva sulla triste fine del loro figliolo disabile. Simile alla sorte del cugino di Ratzinger è stata quella di decine di migliaia di disabili e malati psichici del Terzo Reich, moltissimi dei quali trovarono la morte ad Hartheim, un castello rinascimentale nei pressi di Eferdin, in Alta Austria, a poca distanza da Braunau, cittadina che diede i natali a Hitler. Qui, dal 1939, venne istituito un centro di sterminio “sanitario”, con camere a gas e forni crematori, specializzato nell’eliminazione di “soggetti difettosi”, diretto dal dottor Rudolf Lonauer. Responsabile della funzionalità medica della struttura era il dottor George Renno, cui è dedicato il recente Una ragionevole strage (Lindau, 208 pagine, 15 euro) di Mireille Horsinga-Renno, che ha rintracciato nel prozio George uno dei carnefici di Hartheim. E in questo libro racconta la terribile scoperta di un parente medico dedito all’eutanasia di Stato nazista, morto nel 1997 senza alcun processo a carico, che al termine della sua vita ammetteva candido: «Non mi sento colpevole. Non è come se avessi ucciso qualcuno con un colpo di pistola o qualcosa del genere. Non si è trattato di tortura; per quei malati è stata piuttosto, per così dire, una “liberazione”».

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Un taglio agli “sprechi”
Secondo alcune stime – quelle ad esempio dello storico austriaco Florian Zehethofer – l’intera operazione T4 comportò l’uccisione di 70 persone al giorno per 3 anni, per un totale di 60-70 mila vittime. Il 27 giugno 1945 le truppe americane scovarono ad Hartheim le carte relative all’attività del castello, la cui presenza era avvolta nel mistero per gli stessi abitanti del posto, che si domandavano cosa si facesse in quel maniero dove ogni giorno arrivavano pullman carichi di gente. E dal cui comignolo usciva, ininterrotto, un filo di fumo nerastro. Ebbene, la relazione trovata dagli americani (39 pagine, datate 1942) parlava, nel freddo linguaggio burocratico nazista, dei “risparmi” per lo Stato realizzati grazie all’operazione T4: le 70.273 “disinfestazioni” già effettuate fino ad allora (18.269 svoltesi nel castello dell’Alta Austria) avevano garantito un’economia di 885 milioni di marchi alle casse del Terzo Reich.

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