La stanza senza bottoni

Di Giuseppe Alberto Falci
21 Maggio 2017
Il libro di de Bortoli riaccende il dibattito su chi comanda nel paese (ma forse è meglio guardare all'estero). Parlano la Malfa, Tamburini, Testa

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Si muovono nelle stanze del potere con agilità e precisione chirurgica. A volte si incontrano e poi si scontrano. Ma alla fine giungono a una soluzione che possa lasciare il segno nel corso degli avvenimenti perché in fondo hanno la stessa visione del mondo. Sono i poteri forti. Quella cosa di cui tutti parlano, ma in pochissimi hanno il privilegio di conoscere e frequentare. E di cui Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 ore, ne racconta fatti e misfatti in un libro gustoso e dalla scrittura raffinata, edito dalla Nave di Teseo, dal titolo Poteri forti (o quasi), memorie di oltre quarant’anni di giornalismo. Il libro è al centro del dibattito politico. Perché in una sua parte il giornalista scrive che l’amministratore delegato di Unicredit, all’epoca Federico Ghizzoni, avrebbe valutato su diretta richiesta di Maria Elena Boschi l’acquisizione di Banca Etruria, in dissesto e prossima al commissariamento. Una domanda inusuale da parte dell’allora ministro della Riforme perché la Boschi è la figlia del vice presidente di Etruria. A quel punto l’ad di Unicredit incaricò un suo collaboratore di fare le opportune valutazioni patrimoniali, poi decise di lasciar perdere.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Questa la sintesi del passaggio di de Bortoli. Di certo c’è che dal dopoguerra italiano ad oggi il rapporto fra il mondo della finanza e la galassia politica è mutato considerevolmente. Per diversi decenni in Italia c’è stato una classe dirigente di “sistema” che ha eterodiretto il paese e la società. Per dirla con Fabio Tamburini, oggi vice direttore dell’Ansa, con un trascorso da inviato del Sole 24 ore e Repubblica autore di libri strepitosi sul potere italiano che hanno fatto scuola come Un siciliano a Milano, si è trattato di «un ceto politico ed economico che ruotava attorno a personalità carismatiche e di spessore che uno poteva amare o odiare, ma che possedevano un valore aggiunto». Tamburini ricorda due aspetti: «La sostanziale continuità del potere economico finanziario che sia pure con diversità importanti, è partita da Alberto Beneduce per arrivare a Enrico Cuccia passando per Raffaele Mattioli. Il secondo aspetto è l’asse tra la Fiat degli Agnelli e la Mediobanca di Cuccia dal dopoguerra in poi». Il tutto corroborato dalla stagione della Prima repubblica, dove presidenti del Consiglio come i democristiani De Mita e Andreotti, o il socialista Craxi, hanno sempre caldeggiato il dialogo con quei mondi e ne hanno sostenuto le strategie negli anni delle partecipazioni statali. Dopo Tangentopoli e la crisi dei partiti tradizionali quel rapporto, fatto di luci e ombre, ha continuato ad esistere, con personalità del calibro di Gianni Letta e Cesare Geronzi. Ma oggi la centralità di Mediobanca, vero anello forte della Prima repubblica, non esiste più. Anche la Comit è crollata fino ad essere stata assorbita da Intesa-San Paolo di Giovanni Bazoli. Altro dettaglio: le privatizzazioni hanno contribuito a spalancare le porte del paese alle grandi banche anglosassoni, per le quali «il nostro mercato – scrive de Bortoli – continua a essere un grande affare, dato l’elevato debito pubblico e la montagna di crediti di sofferenza».

Insomma, il refrain rimanda alla solita questione: «C’è un vuoto a volte pneumatico sia sul fronte dei partiti sia sul fronte dei cosiddetti poteri forti». Che porta Tamburini ad affermare: «Esiste qualche eccezione, ma lo scenario è piuttosto desolante. E ciò rispecchia una classe dirigente scadente a tutti i livelli». Ed è proprio quello che sostiene l’ex direttore del Corsera in uno dei suo passaggi quando afferma: «Il dramma è che i poteri forti non esistono più. Ne avremmo bisogno. Quando mancano c’è spazio per nuovi protagonisti, ed è un vantaggio, ma anche una prateria per gli avventurieri, ed è un guaio».

E allora un altro grande protagonista della Prima Repubblica, Rino Formica, parlamentare socialista ed ex ministro, si domanda dalla colonne del Fatto quotidiano: «Che tipo di poteri forti abbiamo in una società disgregata?». Giorgio La Malfa, economista e parlamentare di lungo corso, che ha vissuto il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, scuote il capo alla domanda del cronista: «È proprio un terreno su cui mi muovo male. Ho un ricordo di cose sgradevoli di quegli anni. Abbiamo ereditato un settore pubblico che nessuno possedeva. Il fascismo mise alla tolda di comando di questo settore due uomini dalle qualità straordinarie: Alberto Beneduce e Donato Menichella. I quali furono i fautori della nascita dell’Iri e hanno amministrato e ben gestito il patrimonio dello Stato come fosse un’azienda privata. Dopodiché per la Democrazia cristiana quel patrimonio è diventato un apparato di sottogoverno. Da allora è stato un declino continuo». E oggi, cosa succede? «Succede che negli ultimi tre anni ci siamo occupati di Renzi e del suo giardino. Penso che non si debba avere nostalgia, ma si debba pensare al futuro di questo paese».

Navi senza timone
Chicco Testa, che nel suo curriculum può vantare la presidenza di Enel e di diverse società della galassia pubblica, più un’esperienza in Parlamento fra le fila del Pci, esclude che oggi i poteri forti possano essere rappresentati da Matteo Renzi. «Considerarlo tale è fuori dal buon senso. Non esistono più nel nostro paese. Si trovano al di fuori. Penso a Bruxelles, agli Stati Uniti, alla Francia». Aggiunge Tamburini: «Tramontati i poteri forti, oggi ci sono le lobby più o meno trasversali e più o meno clandestine».

Poi Testa la mette così: «Nell’accezione positiva di poteri forti, esistevano due grandi soggetti: da un lato una certa struttura del capitalismo che si basava sul ruolo autorevole di Mediobanca. E dall’altro c’era un ceto politico strutturato, costituito dalla Democrazia cristiana, il Partito comunista, il Partito socialista e quello repubblicano». E qual è l’accezione negativa? «I due soggetti – annota Testa – in molti casi hanno pensato ai fatti loro, a tutto svantaggio del paese. Eppoi bisogna anche aggiungere che c’è stato anche un lato oscuro dei cosiddetti poteri forti».

Oscuri, o meno, Testa annota che la questione è strettamente connessa alla destrutturazione del sistema politico e partitico e al fatto che «i partiti abbiano smarrito la grammatica del dialogo». D’altro canto, ricorda con un filo di malinconia, «il Partito comunista e la Democrazia cristiana si insultavano anche, ma poi condividevano un linguaggio attraverso il quale si parlavano. Oggi di quella cultura non è rimasto più nulla». Dunque, sarebbe opportuno ripartire e ricostruire una classe dirigente di sistema?

Da osservatore, sempre attento, Tamburini non rimpiange quella stagione. Anzi, afferma così: «Direi che i poteri forti sono come i partiti della Prima repubblica. A volte viene da rimpiangerli. Poi uno si ferma un attimo, riflette e archivia il rimpianto. È evidente che le navi senza timone sbandano pericolosamente. Ed è il caso della stagione in corso. Ma a ben guardare i grandi del passato hanno peccato parecchio».

Foto Ansa

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