La sofferenza dei figli dei separati va affrontata, non rimossa. Intervista a Vittoria Sanese

Di Benedetta Frigerio
02 Novembre 2012
Dopo l'episodio del bambino che si è impiccato a Roma, parliamo della delicata questione con la psicologa della coppia e della famiglia. Una ferita che può essere rimarginata, se condivisa

Aveva dieci anni e si è suicidato giorni fa, impiccandosi con una sciarpa. Una morte che ha sconvolto molti, ma di cui non si sono dette le ragioni. Poche le ipotesi apparse sui giornali che di solito si sbizzarriscono nelle teorie. Solo una frase che i nonni hanno detto appena sono stati interrogati fa un poco di luce: «Ma lui non aveva mai veramente accettato la separazione dei genitori. Ha sofferto molto e non ha mai superato il dolore. Era l’unica ombra nel cuore di Filippo». Vittoria Sanese, psicologa della coppia e della famiglia, racconta a tempi.it il dolore dei figli delle coppie separate.

Diversi studi dicono di una maggior propensione al suicidio nei figli dei separati. Fra questi What puts children of lone parents at health disadvantage? apparso su Lancet il 25 gennaio 2003. Un altro, pubblicato dal San Raffele di Milano, parla della propensione agli attacchi di panico. Nel 2011 l’International Journal of eating disorders ha mostrato i crescenti legami con l’anoressia e la bulimia crescenti.
La separazione va a toccare l’identità, la crescita, le tappe evolutive della persona. Chi nega questo, nega fatti con cui ho a che fare tutti i giorni da anni: il bambino non può vivere tranquillamente in una separazione, non può essere negata la sua fatica. Bisogna che chi si trova in questa situazione sia aiutato e che passi l’idea che bisogna farsi aiutare se davvero si vogliono salvare i propri figli. Se davvero li si ama. Altrimenti non è amore.

Davanti alla recente morte di questo bambino, in molti si è preferito far passare sotto silenzio che una delle possibili cause fosse la separazione dei genitori. Si ha paura di guardare quello che è successo? Si dubita del fatto che la separazione possa essere la causa di tanto dolore?
Il dolore è inevitabile e grande. Il danno psicologico può essere attutito in certi casi, con qualche strategia o conoscenza in più e solo se il bambino è aiutato a tollerare il dolore, se c’è qualcuno che lo porta con lui. Sono rimasta profondamente colpita anche io da questa vicenda: probabilmente quel bambino non ha tollerato più il dolore causato dalla separazione. Vedo un dolore solitario che non è stato confessato, forse ai nonni che magari non avevano gli strumenti per poterlo portare.

Per questo non si può vivere questa situazione senza farsi aiutare.
Il dolore che si genera nel bambino richiede che ci siano adulti capaci di tollerarlo, persone che li guardino e li capiscano. Dentro il bambino i genitori non sono mai divisi, quando il genitore forza la divisione, quando non sa offrire al figlio una coppia genitoriale, ossia capace di accoglienza coniugale, si sentono smarriti. Molti piangono quando sono con la mamma perché vogliono papà e fanno viceversa quando sono con lui. Se il genitore non sa guardare questo dolore tenderà a riempirlo di beni materiali a viziarlo. Ma i figli non se ne fanno nulla se la mamma e il papà non si vogliono bene.

Che cosa dovrebbero fare?
Innanzitutto spiegargli che quello che sente e vede il bimbo è vero, che c’è una ferita, un fallimento e quindi dire: «Caro figlio, tu non sai quanto mi dispiace se non ho saputo reggere o se non abbiamo saputo reggere per la nostra fragilità ed errore, se non siamo capaci di offrirti una vita insieme».

Ma se i due genitori non vogliono provarci nemmeno?
La separazione non può comunque liberare la mamma dall’educare il figlio a rispettare e obbedire al padre e viceversa. Il bambino ha bisogno di vedere che i due continuano ad onorare la maternità e la paternità, altrimenti distruggono il figlio. Io uso una formula: non «non ti posso più vedere per quanto non hai saputo amarmi», ma «non posso che adorarti, perché resti colui che ha dato la vita ai miei figli». Sembra difficile, ma è l’unica che salva i figli.

Che cosa si spezza nel cuore, nel corpo e nella testa del bambino?
Sto affrontando un caso di un bambino che ha cominciato a soffrire oggi che ha 11 anni. I suoi si separarono quando lui aveva a 14 mesi. Quello che sembrava un buon adattamento (il papà e la compagna da una parte, e la mamma dall’altra, comunque molto presenti) ora non lo è più. Il bambino soffre in una maniera che mette i brividi. Cosa lo può salvare? Non lo so, ma quello che gli è mancato è vedere una mamma e papà che si vogliono bene. È come se lui avesse perso il senso della sua esistenza. Questi bambini si chiedono: “Ma, allora, io da che cosa sono nato, ma perché mi avete fatto nascere? Ma voi vi volevate bene e perché allora non vi volete più bene? Io sono frutto di un amore o che cosa? E che cosa regge nella vita?

E cosa può salvarli?
Stiamo parlando di una ferita che è mortale, perché è di una ferita mortale che si tratta e che spezza ciò che tiene in vita il bambino. Mortale anche se non si arriva al suicidio. Servono adulti che si affianchino a loro e che li orientino con amore nella vita, condividendo il loro dolore. Quando c’è questo, uno può anche rinascere. E quella che è una ferita trasformarsi in una risorsa. Insomma, se ci sarà qualcuno che gli farà compagnia dando senso e dignità alla loro esistenza e dolore, offrendo amore costante, allora la ferita sarà trasfigurata. E il bambino potrà capire che esiste un amore che resiste. E che c’è un senso buono del suo esserci. Serve quindi la fede in un’altra paternità. Che è un adulto che sappia trasfigurare la realtà in positivo, da cui, per chi crede, passa l’amore fedele di Dio.

@frigeriobenedet

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2 commenti

  1. L’invito di Vittoria Sanese ed Elisabetta Frigerio (brava!) a non appiattire lo sguardo separativo sul “giudiziario” e ad alzarlo, anche solo laicamente, verso la responsabilità di genitori ed il cammino della vita dei nostri figli non solo è condivisibile, ma rappresenta una rivoluzione per tutto il mondo occidenatale.
    Il divorzio “no fault”, cioè “senza motivo”, inventato in California alla fine degli anni ’60 ed importato in Italia già nel 1971, attende da oltre 40 anni un percorso educativo (in California iniziato già nel 1985 ed oggi approdato alla mediazione obbligatoria prima di entrare in Tribunale per separarsi). Il significato simbolico di questa “obbligatorietà” è il farsi carico, finalmente e totalmente, dei propri figli. Ciò è possibile attraverso uno sguardo limpido sul fenomeno separazione/divorzio, che è tante cose. Innanzitutto è gesto unilaterale: uno si separa e l’altro “viene separato”. Se non si assume ciò, continueremo a raccontarcela (il “dramma”, ecc.), mentre la separazione è cieca adesione al mercato (privato o di stato): essere tutti divisi (marito da moglie, genitori da figli, dipendenti da datori di lavoro, ecc) per divenire clienti sempre più acquiescenti (si pensi alla pacchia dei venditori di servizi e merci, che si trovano gratuitamente raddoppiati i compratori; e questi venditori sono gli stessi che possiedono i media, sui cui il divorzio no fault è trattato, nella migliore delle ipotesi, come un’ineluttabile evento della vita).
    Nell’unilateralità, chi “viene separato” ha il compito di perdonare (che non significa dimenticare), perchè ha avuto il dono di essere perdonato e salvato. E di riaffermare con umiltà e fermezza la sua vocazione alla famiglia, diritto per altro riconosciuto dalla civilissima Costituzione europea. Un percorso educativo, anche per le famiglie sposatesi in Chiesa, potrebbe condurre alla verifica di un’insufficienza alla vita matrimoniale fin dal suo inizio e quindi ad una nuova riformulazione di famiglia. Troppa è ancora l’attenzione alla coppia (in essere o ex), troppo poca l’attenzione alla famiglia (tale solo quando ci sono i figli).
    I figli sono la pietra miliare che vanifica ogni unilateralità o imperdonabilità. Per non usare parolone teoriche, che considerano separazioni/divorzi solo epifenomeni di decadenza, è necessario vagliare queste condizioni che attengono alla globalità della vita delle persone con il maggior numero di approfondimenti possibili (non solo psicologici, ma anche economici, sociologici, giuridici, sanitari, sociali, politici, ecc.).
    Chi ci ha condotto a questa chiarezza e consistenza di aiuto alla migliaia di genitori separati, che ogni anno si rivolgono alla nostra associazione di PapàSeparatiLombardia, ci ha anche protetto dalle tragedie. Possiamo solo ringraziare, affinare con tutti gli strumenti disponibili le soluzioni che proponiamo e continuare a chiedere protezione.

  2. Marco

    Bellissimo e realistico giudizio su un dramma sempre più frequente. Anche le comunità e le parrocchie dovrebbero cominciare ad affrontare il problema delle persone separate e dei loro figli, non con piani pastorali ma con una vicinanza concreta in queste situazioni offrendo supporto sia ai genitori che ai figli.
    Il peggio che si può fare è isolare i genitori separati schiacciandoli con giudizi spesso superficiali, e lasciandoli quindi soli, insieme ai figli, ad affrontare i gravi problemi sia pratici che affettivi che ogni separazione porta con se.

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