
La prima calamità è il vuoto politico
Pubblichiamo l’intervista all’amministratore apostolico di Mogadiscio, uscita sul numero 41 di Tempi.
«Non metto piede a Mogadiscio da quattro anni. La Caritas Somalia, di cui sono presidente, nel suo piccolo sta operando con progetti d’emergenza nelle zone colpite dalla carestia, ma indirettamente, attraverso associazioni e individui somali amici. Chiunque lavorasse con noi o per noi apertamente, si esporrebbe a grossi pericoli. Anche se i cristiani indigeni sono meno di un centinaio su una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti».
Monsignor Giorgio Bertin allinea parole pesanti come massi con serenità francescana. Lui è il successore di monsignor Salvatore Colombo, anch’egli francescano, vescovo di Mogadiscio assassinato da uno sconosciuto la sera del 9 luglio 1989 davanti alla cattedrale. Ma non ne ha ereditato l’anello: dopo quel delitto la Somalia sprofondò nella spirale di autodistruzione che prosegue fino a oggi. La cattedrale fu distrutta e le tombe dei vescovi profanate. Bertin, nominato amministratore apostolico della diocesi nell’aprile 1990, è rimasto tale. Nel 2001 è diventato vescovo di Gibuti, paese confinante con la Somalia e la cui popolazione è in maggioranza di etnia somala. Da lì si avventura sporadicamente nei tre tronconi in cui la Somalia si è divisa dopo il 1991: il Somaliland a nord, il Puntland e la Somalia meridionale in gran parte sotto il controllo dei miliziani Shabaab. Gli ultimi religiosi cattolici si sono ritirati nel settembre 2006, quando le missionarie della Consolata sono rientrate in Italia dopo l’uccisione di suora Leonella Sgorbati. Tre anni prima era stata assassinata a Borama Annalena Tonelli, missionaria laica.
Monsignor Bertin, quali sono le cause della carestia nel Corno d’Africa? E che valutazione dà della risposta della comunità internazionale?
Sono mancate due stagioni delle piogge di fila, quella dell’ottobre-novembre dell’anno scorso e quella dell’aprile-maggio di quest’anno. In regioni come queste, dove la gente vive di economia di sussistenza basata sulla pastorizia e sull’agricoltura, gli equilibri saltano rapidamente. Nella Somalia meridionale la situazione è diventata subito drammatica perché lì alla calamità naturale si aggiunge la calamità umana: venti anni di guerra e di assenza dello Stato, una conflittualità continua per il potere. Gli aiuti stanno arrivando, anche se gli enti Onu lamentano che gli obiettivi non sono stati ancora raggiunti. Il vero problema è il collo di bottiglia rappresentato dalla guerra e dal brigantaggio nel territorio somalo: è difficile e pericoloso raggiungere i bisognosi, che infatti fuggono fuori dal paese.
Com’è possibile che a vent’anni dalla caduta del regime di Siad Barre il paese ancora non trovi una stabilità? E che gli Shabaab, con tutte le loro nefandezze, controllino ancora due terzi del paese?
Adesso è il turno degli Shabaab, ma nulla impedisce che una volta tolti di mezzo loro arrivi qualcosa di peggio. C’è un’oggettiva difficoltà a ricostruire le istituzioni, perché quelle somale sono popolazioni nomadi, che non hanno l’idea dello Stato così come noi lo concepiamo. E poi c’è un 2-3 per cento di somali che lavorano per mantenere il paese nell’instabilità, che tengono in ostaggio la Somalia, per potere poi presentarsi come mediatori fra la popolazione che muore di fame e i donatori internazionali. La restaurazione delle istituzioni metterebbe fine al loro business, al quale hanno contribuito e continuano a contribuire tutti: governi, Onu, Ong. Che in questi anni hanno riversato assistenza con troppa facilità, senza preoccuparsi di come veniva gestita.
È un giudizio molto duro sugli aiuti internazionali, in un momento in cui si moltiplicano gli appelli di fronte alla tragedia della carestia.
Gli aiuti per la carestia e alla ricostruzione sono necessari e devono diventare più continui, meno legati all’emotività del momento, ma in Somalia il problema di fondo è politico, non umanitario. Qualche settimana fa le principali Ong hanno proposto una dichiarazione comune per ribadire che la loro azione è strettamente umanitaria. Doveva servire, credo, ad ammorbidire gli Shabaab, che non lasciano entrare nessuno nei loro territori tranne la Croce Rossa e qualche Ong islamica. Io ho spiegato che Caritas Somalia non avrebbe mai firmato quel testo, perché l’azione puramente umanitaria non serve, solo perpetua questa situazione disastrosa per altri cento anni. Ci vuole un profondo cambiamento politico, e la Chiesa deve agire a livello politico: lavorare per la giustizia, la riconciliazione e la pace fa parte dei nostri compiti.
Pare che lei non abbia molta fiducia nell’attuale Governo federale di transizione. Comunque ci sono gli accordi di Gibuti, che prevedono elezioni generali per l’agosto 2012.
Di accordi come quello in questi anni ne sono stati firmati 15 senza che nulla cambiasse. Gli Shabaab dominano proprio a causa dell’inettitudine dei governi che si sono succeduti, composti per lo più di attaccabrighe e di incapaci, impegnati solo a contendersi le risorse messe a disposizione dalla comunità internazionale. Bisognerebbe lavorare con la diaspora somala nel mondo, individuare gli elementi migliori, quelli che non ragionano più in termini di clan ma di interesse nazionale. Serve una nuova leadership, e per costruirla anzitutto bisogna decidere di non abbandonare i somali al loro destino.
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