Non scambierò mai la musica degli anni ’70 con quella liquida degli anni 2000. Non baratterò la mia adolescenza e la mia giovinezza, quando all’inizio degli anni ’70 godevo delle novità musicali che arrivavano dalla prolifica discografia inglese. Sintonizzavo la radio e partivano le note che avrebbero cambiato il corso della storia del rock. Le ho gustate così, in diretta, scorrevano fluide sotto il pick up del giradischi da quei vinili che arrivavano freschi freschi nei negozi e che avevano l’odore del cartone umido delle copertine, appoggiate l’una contro l’altra.
Quale emozione e quale stupore ascoltare e riascoltare pezzi come Fireball, Demon’s eye, Child in time e tanti altri titoli, senza dimenticare quel riff eterno e leggendario: quei pochi accordi, grattati sulle corde, che tutti gli aspiranti chitarristi del mondo almeno una volta hanno suonato. Un incipit entrato nella storia del rock blues dal titolo eloquente: Smoke on the water. Lunedì 16 luglio 2012 se n’è andato un pezzo di questa leggenda, ci ha lasciato a causa di un’embolia polmonare, tragico epilogo di una lunga lotta contro un tumore al pancreas: è morto a 71 anni, Jon Lord, il funambolico tastierista dei Deep Purple.
Fu cofondatore del gruppo, alla fine degli anni ’60, insieme a un’altra icona del rock britannico, Ritchie Blackmore, chitarrista principe dei Deep, che affacciandosi sui ’70 insieme ai Led Zeppelin diede dignità e spessore al fenomeno hard rock. Un rock duro, ma “con garbo”, con forti venature blues, popolare in fondo, così come aveva insegnato la lezione dei Rolling Stones. Deep Purple e Led Zeppelin sono ancora esempi irrangiungibili: copiati, abbondantemente, ma non surclassati. Motivo? Il carisma dei loro musicisti e dai loro vocalist possenti: Robert Plant per i Led Zeppelin e Ian Gillian per i Deep. Ian poi era così possente da essere scelto come primo interprete protagonista di Jesus Christ Superstar. Parlando dei chitarristi inarrivabili, come non citare anche Jimmy Page e non ricordare Whola lotta love?
Ma i Deep Purple avevano un asso in più da presentare: Jon Lord, uno dei più grandi tastieristi di psichedelìa rock blues. Studi classici, e si sentiva, Lord dava spesso libero sfogo alla sua creatività sfornando riff, vere e proprie suite che infuocavano le performance dei Deep. Le sue dita correvano veloci sui tasti dell’Hammond, pronto a duelli all’ultima nota con le corde della chitarra di Blackmore, in una sarabanda estatica di infiniti rock blues elettrizzanti. Così per più di vent’anni, poi l’inevitabile oblìo. Altri tastieristi in quegli anni solcarono la scena del rock: Keith Emerson, degli Emerson Lake and Palmer, Rick Wackeman degli Yes, Steve Winwood dei Traffic, ma tutti con una punta un po’ spocchiosa di “progressive”. Lord, no. Lord puntava alla pura tradizione blues, intrigato però come altri colleghi dal crossover con Amadeus e Johann Sebastian. Forse, Jon Lord di quella compagnia di rocker è stato il più grande, sicuramente è stato un campione. Io c’ero.