«Io, operaio delle cockerie dell’Ilva, mi chiedo: che fine farò?»
Dai parchi minerali, la sabbia grigiastra (il materiale ferroso grezzo) – che se si leva il vento si disperde per i quartieri circostanti insozzando le case e appesantendo i polmoni – viene trasportata con il carbon fossile nelle dieci batterie di forni, macchine di fuoco sempre accese, che in una serie di fasi trasformano la polvere in coke metallurgico, pronto ad essere trasferito negli altiforni. Siamo nelle cockerie dell’Ilva, l’area dove si lavora la “materia prima” delle acciaierie più grandi d’Europa: la stessa area che è stata sottoposta insieme ad altre a sequestro dal Gip Todisco e dal tribunale del riesame. Le perizie indicano la cockeria come cuore rovente dell’inottemperanza alle norme ambientali da parte della famiglia Riva: secondo i giudici «il controllo è discontinuo» sulle emissioni di inquinanti cancerogeni come l’Ipa, il benzene, e altre polveri disperse. Ma gli operai, malgrado le notizie allarmanti che viaggiano a tutte le ore sulla loro stessa salute, non solo si presentano qui puntuali tutti i giorni, ma da qui non vogliono andarsene. Finito il primo turno, nel pomeriggio, sulla piazzola davanti all’Ilva si fermano a chiacchierare. Si respira aria di angoscia. «La domanda che ci facciamo più spesso è che fine faremo», racconta Adelio, un operaio della cockeria, che con il suo racconto “apre le porte” dell’Ilva a tempi.it, proprio mentre il tribunale del riesame ha accolto il ricorso dell’Ilva e riconfermato Bruno Ferrante nel pool di custodi dell’impianto. «Io lavoro qui dal 1994, quando i Riva ancora non c’erano – prosegue Adelio, 45 anni, 18 dei quali vissuti qui –. Io allora ero dipendente di un’azienda dell’indotto che aveva un appalto nel settore cockeria. Quando l’azienda ci mise in cassa integrazione, è stata proprio l’Ilva a riassumerci tutti. È anche la nostra azienda, questa».
Qual è stata la situazione dell’area cockeria che lei ha visto in questi anni?
Nel nostro reparto, dal 2004 ad oggi, i Riva hanno inserito diversi macchinari sempre più evoluti. Oggi è il reparto nell’occhio del ciclone giudiziario. Ricordo che nel ’94 non si poteva stare. C’era da prendersi paura. L’aria era inquinante, lo avvertivamo a pelle, era molto pesante. Fumi e gas erano visibili ad occhio nudo ed erano emessi dalle batterie di forni. Ora le macchine sono nuove, e questo gas non è più visibile: ci sono caricatrici o fornatrici che sono digitalizzate, con aria condizionata, e non entrano polveri o gas grazie a porte sigillate. Queste modifiche sono state fatte più o meno a partire dal 2000.
Eppure nell’ordinanza del tribunale del Riesame, proprio rispetto alle cockerie, si legge che i carabinieri del Noe, nel corso di un’ispezione nel 2011 hanno «notato personalmente la generazione di emissioni fuggitive provenienti dai forni, che una volta aperti per far fuoriuscire il coke distillato, lasciavano uscire dei gas del processo che invece avrebbero dovuto essere captati da appositi aspiratori». Voi operai non notate queste emissioni?
Sinceramente, noi non possiamo addentrarci in questo livello tecnico. Ma confermo quello che ho già detto: dal ’94 ad oggi l’area cockeria è tutt’altra cosa. Poi che qui non produciamo cioccolatini ma carbone, noi operai lo sappiamo bene. Immagino che nelle acciaierie possano esserci fughe di gas, a causa di un’operatore non abile, o perché qualche tubo si intasa. Non posso entrare nel merito della consulenza dei periti al gip e sicuramente questo è un reparto da cui possono fuoriuscire i gas. Ma, ad esempio, i Riva hanno cercato di migliorare la situazione. Sono state chiamate delle ditte che lavorano in appalto. Sul lato macchine del forno coke, c’è una porta che si chiude quando viene caricato il carbon coke. Dopo la chiusura, ci sono degli operai incaricati proprio di controverificare la chiusura ermetica, con martelli per tamponare lo sportello e una malta speciale. C’è sicuramente qualcos’altro da migliorare, e noi operai siamo felici che venga fatto, perché i benefici per la salute sono importanti. L’altro ieri, ad esempio, la commissione per la nuova Aia (autorizzazione integrata ambientale) ha sequestrato un forno perché c’era un tubo di sviluppo intasato, che ovviamente emetteva fumi. Ecco: con un po’ di criterio, notato che il tubo è intasato, si può smettere di caricarlo per un giorno, per disintasarlo. Non è una cosa che succede spesso d’altra parte, dipende dall’attenzione del singolo dipendente che spesso riesce a prevenire.
Sempre nell’ordinanza del Riesame sul sequestro degli impianti, si legge di un’analisi dell’Università di Bari che «ha evidenziato come i lavoratori della batteria A risultassero i più esposti» agli inquinanti, rispetto a quelli delle batterie B e C. Personalmente ha conosciuto qualche collega che si è ammalato?
Io ho amici e parenti che sono morti di tumori ai polmoni, eppure non lavoravano all’Ilva, né vivevano a Taranto. Non ho conosciuto personalmente operai che si sono ammalati all’Ilva, ma ognuno di noi ha certo anche la paura di lavorare in un’industria dove sai di poterti ammalare. L’ambiente è questo, non c’è dubbio: un’industria con un tasso di inquinamento superiore alle norme. Non è che noi operai non sentiamo queste notizie o rimaniamo indifferenti. Anzi, in questo periodo a volte ci succede, a me per primo, di avere l’angoscia improvvisa di andare a lavorare. Ma ho anche una domanda: perché dei tumori e delle malattie tutti se ne accorgono solo adesso? E perché mai niente succedeva quando questa era Italsider e apparteneva allo Stato? Ovvio che la salute è importante, ma oggi vedo un po’ di accanimento su quest’azienda.
Secondo i periti medici chiamati dal Gip, in sei anni sono attribuibili alle emissioni dell’Ilva, nei quartieri tarantini di Borgo e Tamburi, 91 morti, 160 ricoveri per malattie cardiache e 219 per malattie respiratorie. Tra il 1998 e il 2010 si sono contati 386 decessi totali attribuibili alle emissioni, e 237 casi di tumori maligni, come 937 casi di malattie respiratorie, in gran parte riferiti a pazienti in età pediatrica. Che effetto fa a voi lavoratori sentire queste notizie?
Sentire tutte queste notizie ci addolora e, come dicevo, ci spaventa. Noi le abbiamo sempre sentite, non è questa la prima volta. Ma anche questa situazione la si viveva come tutte le altre cose che riguardano la morte e il pericolo. Abbiamo sentito anche dei pericoli legati ad altre realtà, come l’Eni o l’Agip o la marina, e si continuava. Poi, man mano che si è entrati nello specifico di queste situazioni dolorose, anche il nostro punto di vista si è approfondito. Si è formato un gruppo di operai Ilva, i “lavoratori pensanti” si chiamano, che da tempo denunciano pubblicamente i danni fatti dall’Ilva. Adesso che ogni giorno non si parla che dell’Ilva, è normale che tutti noi siamo preoccupati ancora di più per la salute. Prima andavamo a lavoro forse quasi senza accorgercene, senza pensare a questi aspetti, adesso invece ci stiamo informando.
Qual è la situazione oggi nella cockeria?
Si lavora regolarmente: ci sono i sigilli alle batterie, ma per fortuna grazie alle convenzioni il lavoro continua. Tra di noi, quello che ci chiediamo sempre è “che fine faremo?”. La salute è importante, ma anche il lavoro lo è, anche perché qui l’unico escamotage che abbiamo per vivere è questa azienda. La sentiamo come nostra azienda. Io la sento anche parte della vita, me ne sento partecipe. Certo, a chi di noi non piacerebbe uscire dall’Ilva e andare da un’altra parte, più sicura e tranquilla? Ma con questa disoccupazione che c’è in giro, dove ce ne andiamo?
Le vostre famiglie come vivono questo periodo?
Sono preoccupatissime. È normale. Mia moglie, sentendo le notizie in tv, ora è anche più tesa per la mia salute. Un’angoscia che si somma a quella per il lavoro. Quello che noi operai chiediamo è di sistemare le cose per il nostro bene adesso, ma anche dei nostri figli e del loro domani. Magari vorranno lavorare all’Ilva, e ne troveranno una nuova, con un altro approccio e una situazione migliore. Perché si può migliorare sicuramente: nella cockeria è possibile effettuare dei miglioramenti senza spendere nulla. I Riva hanno uno stabilimento di acciaio anche in Germania, e lì sono i primi in tutela dell’ambiente: come fanno lì non lo possono anche qui da noi?
Voi operai cosa ne dite? Perché non è avvenuto?
Noi operai diciamo che c’è stato un “mangia mangia” di tutti. A cominciare dallo Stato e dagli enti: io non credo che prima non si potevano fare delle migliorie o che non si conoscessero i problemi per la salute. Ma prima dove erano tutte queste persone? Dov’erano quelli che, giustamente, oggi denunciano dappertutto la diossina e gli inquinanti? Perché non mantenevano alta l’attezione come adesso? Ecco: la risposta a queste domande, è quello che noi operai intendiamo per “mangia mangia”.
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