Intervista a Walter Siti: la vita non è un romanzo
«Io sono ormai un vecchio arnese. Quelli della mia generazione hanno vissuto un’omosessualità tragica e conflittuale, con una forte connotazione mistica o simbolica: cercavamo un rapporto con l’assoluto. L’omosessualità dei ragazzi di oggi ha a che fare semplicemente con il rapporto tra due persone, un fatto pratico, concreto».
Parla con una mitezza dalla quale traspare una lunga consuetudine col disincanto e la disperazione Walter Siti, 65 anni, accademico, critico letterario, curatore delle opere di Pasolini, autore televisivo e soprattutto scrittore che per trent’anni – proprio mentre si affermava quel processo che lui stesso ha definito di «gayzzazione dell’Occidente» – ha scandagliato il suo cuore e le sue ossessioni attraverso la parola (creandosi un alter ego lungo quattro romanzi: Un dolore normale, Scuola di nudo, Troppi paradisi e Il contagio). Oggi Siti ha una piega più amara sulle labbra: è appena tornato da Modena, la sua città natale, dove ha accompagnato in ospizio l’anziana madre malata di Alzheimer, alla quale non ha mai confidato la propria omosessualità, anche se lei sapeva, in silenzio.
Si potrebbe sostenere che la mia serenità non è altro che questo: essermi rifiutato, per eccesso di sofferenza, alla visione diretta della verità. Ho chiuso gli occhi di fronte all’enorme, spaventosa sconfitta, al taglio gigantesco come un canyon davanti al quale avrei dovuto, per dignità, uccidere o morire. (Troppi paradisi)
«Ricordo a vent’anni di avere ricevuto degli sputi in faccia da persone che si sentivano guardate con desiderio. E gli sputi non erano il peggio che poteva capitarti. Poi c’era un’assoluta mancanza di contesto che ti permettesse di vivere i tuoi rapporti all’interno di una rete di amicizie, per non parlare del rapporto con la famiglia. Intorno non c’era niente, soltanto quella così lì, la tua omosessualità, da vivere in solitudine».
Una sorta di condanna…
C’era proprio l’idea che l’omosessuale fosse una razza condannata: il riferimento era all’inizio del famoso Sodoma e Gomorra di Proust nel IV volume della Recherche dove lui parla degli omosessuali come di una razza simile agli ebrei. Un ragazzo si sentiva un reietto per il fatto stesso di appartenere a questa razza. È emblematico il caso di uno strano romanzo di culto di Carlo Coccioli, Fabrizio Lupo, edito in francese nel 1952 perché in Italia era considerato impubblicabile. Una sorta di libro maledetto: dopo l’uscita in Francia diversi ragazzi si suicidarono e l’autore riparò in Messico. Lì tradusse la sua opera in spagnolo nel 1953, anche questa edizione accompagnata da una catena di suicidi. Coccioli usa una bella definizione: «Ogni omosessuale è come un anarchico uscito da un diluvio». Forse per questa impossibilità di vivere una vita normale, noi privilegiavamo gli aspetti simbolici della nostra condizione: l’uomo desiderato diventava un angelo, come i ragazzi di Sandro Penna o quelli di De Pisis. Oppure il simbolo di un dio pagano, Ercole o Apollo. Qualcosa di più e qualcosa di meno di un uomo. Il che letterariamente produceva registri fecondi, dalle poesie di Kavafis al personaggio di Vautrin delle Illusions perdues di Balzac e degli Splendeurs et miseres des courtisanes, un essere intriso di male, affascinante proprio perché aveva qualcosa a che fare con l’inferno.
Come ha vissuto il passaggio della condizione omosessuale da drammatica e spesso tragica ricerca dell’assoluto ad “assoluta normalità” come vuole il movimento gay?
Per quanto mi riguarda non ho potuto approfittare di questa svolta. Sono felice che oggi i ragazzi non siano più oggetto di sputi o di violenza, ma questa “normalità” non mi appartiene e non mi interessa. Io non ho avuto possibilità di scelta. Probabilmente la mia ricerca sarebbe andata in questa direzione anche se fossi stato eterosessuale: del resto fin dall’inizio mi sono trovato in sintonia con scrittori eterosessuali che vivevano l’erotismo come qualcosa che ti porta in un’altra dimensione. Penso a Baudelaire, anche se per lui erano donne nere e per me uomini, l’idea era quella: non importa dove, fuori dal mondo. Per me il punto era questo e questo rimane.
Lei è d’accordo col fatto che l’orientamento sessuale è solo un dato culturale, qualcosa che può evolvere e cambiare nel corso della vita?
Dipende da che cosa si intende per orientamento sessuale. Se significa che nella vita possono capitare incontri di vario tipo, sono d’accordo. Penso che la bisessualità sia sempre esistita anche se aveva dei forti interdetti e faticava ad emergere. Penso però allo stesso tempo che ci siano dei condizionamenti di tipo nevrotico. Sono d’accordo sul piano politico quando si dice che l’omosessualità non è una malattia nel senso che se due ragazzi sono felici e vivono una vita sessuale insieme non vedo che cosa ci sia di malato. Ma ho conosciuto diversi omosessuali che avevano quasi una impossibilità di fare l’amore con una donna, che di fronte alle donne avevano reazioni di spavento per non dire di panico. Allora è evidente che lì c’è uno sbarramento psicologico che io per semplicità ho chiamato nevrotico, qualcosa che somiglia a un blocco o a una censura. È un po’ ideologico dire: non importa, uomo o donna è la stessa cosa.
Cosa pensa delle leggi contro l’omofobia?
Penso che, dal punto di vista di una società, commettere violenza spinti dall’odio per una categoria sia più grave che commetterla spinti dall’odio per una singola persona, e che dunque la legge dovrebbe tenerne conto. Ma penso anche che l’omofobia, in Occidente, si sia incarognita proprio perché si sente oscuramente sotto attacco. In questo senso è perfettamente parallela all’odio nei confronti della multi-etnicità.
Gli omosessuali sono condizionati da sempre a desiderare non una persona ma un’immagine… il loro oggetto d’amore è, per definizione, un surrogato: è la proiezione di un ircocervo originario, non esistente in natura, metà angelo, metà specchio e metà madre (sì, tre metà) – e quindi la loro non può essere la ricerca di un individuo reale, ma appunto di qualcosa che rimandi ad altro, e di cui si deve restare in superficie perché se andassimo in profondità scopriremmo che non è lui. Quale oggetto migliore di un’immagine, che una profondità non ce l’ha proprio? (Troppi paradisi)
«Tra i 30 e i 40 anni mi è capitato di avere alcuni rapporti duraturi con persone uguali a me, naturalmente con un po’ di difficoltà, senza parlarne alle famiglie, ma già con un giro di amicizie. Dai 50 anni mi sono “specializzato” sul tipo del culturista e questo ha reso tutto più complicato. Frequentavo un giovane culturista delle borgate romane e ho anche provato a parlare coi suoi amici, ma il basso livello sociale rendeva difficile una condivisione di interessi. Il mio destino era segnato e io ne ero consapevole, anche perché queste persone erano semplicemente i portatori di un simbolo, ciò che conta è solo l’immagine. Non puoi certo pensare a un sodalizio che dura tutta la vita, fatto di complicità. E poi anche quei loro corpi erano destinati a invecchiare. Io ero consapevole di vivere qualcosa che mi avrebbe portato fuori dal mondo, che l’erotismo era in fondo una scusa per vivere fuori dal mondo e che poi sarebbe arrivato il momento in cui i nodi sarebbero venuti al pettine. E a quel punto avrei semplicemente dovuto vivere di ricordi oppure cercando l’assoluto da altre parti».
Qual è stato il suo rapporto con la religione cattolica?
Ho divorziato con la Chiesa cattolica per eccesso di religiosità. Ricordo che, ragazzino, andavo a confessarmi dal prete e gli dicevo: ho visto passare quel canoista e mi è piaciuto. Quello mi diceva: ti do l’assoluzione però devi promettermi di non far più questo peccato. Ma io sapevo che i peccati si possono fare in pensieri, opere e omissioni. Quanto alle opere avrei potuto astenermi, ma quanto al desiderio era impossibile. Così il prete non mi diede l’assoluzione e senza assoluzione niente eucarestia: mi sentivo tagliato fuori. È così che sono nati gli angeli: visto che la Chiesa non me lo permette, allora gli angeli me li fabbrico da solo.
Io sono l’Occidente perché appartengo a quel tipo di omosessuali che hanno fornito il modello dell’Immagine come obiettivo del desiderio… sono l’Occidente perché odio le emergenze e ho fatto della comodità il mio Dio; perché tendo a riconoscere Dio in ogni cosa tranne che nella religione; perché mi piace che se premo un bottone gli eventi accadano come per miracolo ma non ammetterei mai di dover rendere omaggio a una entità superiore; sono laico e devoto alla mia ragione. Sono l’Occidente perché detesto i bambini e il futuro non mi interessa. Sono l’Occidente perché godo di un tale benessere che posso occuparmi di sciocchezze, e posso chiamare sciocchezze le forze oscure che non controllo. Sono l’Occidente perché il Terrore sono gli altri. (Troppi paradisi)
Augusto Del Noce ormai 50 anni fa per descrivere la società occidentale parlò di «nichilismo gaio» dove anche i rapporti eterosessuali si sarebbero vissuti omosessualmente…
C’è una parte della profezia di Del Noce che mi pare non si sia realizzata ed è quella legata all’eclisse della dimensione del trascendente. In realtà in una società perfettamente secolarizzata come la nostra il trascendente si nasconde dove non lo si cerca. Ci sono dimensioni sotterranee in cui il trascendente si traveste, magari assume delle forme degradate, ma non sparisce. Del resto anche alcune ossessioni sessuali hanno a che fare con il misticismo. L’ossessione per il tipo Ercole, per il tipo Apollo, per il tipo Angelo sono forme degradate, secolarizzate di un bisogno di metafisica che non è più reperibile ad altri livelli.
Lei però ha parlato di “gayzzazione dell’Occidente”.
Non lo intendevo in maniera così profonda, alla maniera di Del Noce, ma solo dal punto di vista estetico-sociologico. Il modo di vivere il desiderio degli omosessuali si sposa meravigliosamente con il nostro modo di vivere il rapporto con le merci. È come se il desiderio gay fosse diventato il modello di un certo desiderio di merci. È un desiderio basato su rapporti veloci e intercambiabili fino alla promiscuità – tra le nuove generazioni oggi vanno di moda i matrimoni gay, ma io poi li vedo come buttano l’occhio sul culturista che passa: resta l’idea che ogni lasciata è persa e che un desiderio puro nei confronti di un bel corpo ha una sua vita autonoma che puoi seguire magari avendo a casa una tua storia. Nel desiderio gay c’è inoltre la capacità di distaccarsi dalle conseguenze relazionali, l’invecchiamento e la cura reciproca. Se noi di ogni merce che acquistiamo dovessimo pensare: ma quanto mi dura? Quanto mi serve? Tra 10 anni ce l’avrò ancora? Probabilmente non compreremmo più nulla. I gay da questo punto di vista sono all’avanguardia. Non sono più gli esclusi dal potere, sono diventati il modello d’avanguardia di questo tipo di desiderio consumistico. Dal punto di vista estetico poi non c’è dubbio che questi corpi depilati, rotondi, molto muscolosi che sono stati la scoperta americana degli anni Ottanta, corpi estremamente patinati e lucidi dove uomini e donne tendono a confondersi, sono diventati un modello per la forma di molte merci: Nina Senicar non posso averla, ma il telefonino che ha le sue stesse curve sì. E poi i parafanghi delle automobili, certi gelati: questa forma compact un po’ infantile, rotonda, piena è diventata una icona del desiderio. Se dovessimo fare l’archeologia di questo desiderio da una parte troviamo le maggiorate degli anni Cinquanta e dall’altra i culturisti anni Ottanta che piacevano agli omosessuali. Sono arrivati prima certi modelli sulle copertine di riviste americane come Colt e poi i palestrati di Maria De Filippi. Ricordo la sorpresa quando visitai New York dopo l’11 settembre. Dal giornalaio notai da lontano un calendario che mi pareva fosse rivolto al pubblico omosessuale. In realtà non lo era affatto, si chiamava Heroes, serviva per raccogliere fondi per le vittime delle Twin Towers e ritraeva i pompieri di New York con i muscoli in bella evidenza e la firma di Rudolph Giuliani. È indubbio però che l’immagine estetica fosse quella gay.
Nelle palestre, ormai, i corpi femminili e i corpi maschili tendono a convergere e a confondersi: tra un seno femminile siliconato e pettorali maschili costruiti dagli anabolizzanti, il divario non è sostanziale… entrambi sterili, maschi o femmine che siano. Cade il tasso di natalità, non solo per la paura del futuro. I figli (quei pochi) si generano artificialmente, con siringhe e vetrini. Nel più profondo dell’autenticità c’è l’artificio: questo è un segreto che gli omosessuali hanno custodito nel loro cuore per secoli e adesso vedono incoronato sugli altari del potere. (Troppi paradisi)
Qual è stato il suo rapporto con Pasolini?
Nel 1968 rimasi così colpito dalla visione di Teorema da sognarmelo di notte e decisi di fare la tesi su di lui. Gli scrissi due lettere per chiedergli informazioni che probabilmente il suo segretario dell’epoca, Dario Bellezza, cestinò perché non ebbero risposta. Allora con la pazzia dei vent’anni gli scrissi una letteraccia mandandolo affanculo. A quel punto mi rispose proponendomi di pubblicare su Paragone l’ultimo capitolo della tesi, quello più tecnico, sull’endecasillabo delle Ceneri di Gramsci. E mi invitò a casa sua, per metterlo a punto. Ci sono andato per sei-sette volte e quello è stato il momento in cui l’ho conosciuto veramente. Lui poi mi accompagnava alla stazione Termini sulla sua Giulietta. Dopo un po’ gli confidai che ero omosessuale anche perché era l’unico a cui potevo dirlo. Mi scrisse due bellissime lettere sulla sua omosessualità e su quando era ragazzo, due lettere che ho perso per due volte a distanza di dieci anni, cosa che mi ha fatto pensare che c’era qualcosa dentro di me che me le faceva perdere. Abbastanza presto, diciamo subito dopo la laurea, cominciai a sentire come un peso quel suo senso di colpa forte, intrinseco al suo modo di vedere l’omosessualità: lui ha sempre considerato la condizione omosessuale come qualcosa di estraneo da cui si sentiva oppresso, a un certo punto disse: «Me lo sento come un fardello che porto sulle spalle e che non è mio». Io avevo vent’anni e molta voglia di scoprire Londra e Amsterdam. La salvezza mi arrivò con Fratelli d’Italia di Arbasino: mi resi conto che c’era il modo di divertirsi andando a zonzo per l’Italia lungo l’autostrada del Sole. Diciamo che dai 23 ai 30 anni scelsi di non pensare più a Pasolini.
Quando lo riscoprì?
Quando ho cominciato a scrivere. È come quando passi la vita a litigare con tuo padre, a pensare che è uno stronzo, a negarlo. Poi un giorno, facendoti la barba, ti accorgi che allo specchio fai esattamente i suoi stessi gesti, sorprendi sul tuo volto la sua smorfia. Mi è successo quando ho scritto il mio libro sulle borgate: tutti mi prendono per cretino quando lo dico, ma giuro che sulle prime non ho pensato a lui. Mi sono ritrovato a fare scelte simili alle sue, ad avere un percorso che lo costeggiava, avendo sempre cercato di restarne lontano. Succede, a volte, con i veri padri.
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