Anticipiamo un editoriale tratto dal numero di Tempi in edicola da giovedì 7 luglio (vai alla pagina degli abbonamenti) – Uno dei cliché più diffusi per quanto riguarda l’interpretazione dei fenomeni di terrorismo islamista è centrato sulle condizioni di indigenza materiale di coloro che vengono indottrinati: tranne i paesi del Golfo, gli Stati a maggioranza musulmana sono quasi sempre affollati di masse povere e private dell’istruzione.
Le teste di bambini e ragazzi figli di sottoproletari vengono allora imbottite con una versione intollerante e bellicosa dell’islam – quella wahabita, che rappresenta l’ideologia di legittimazione della monarchia che governa l’Arabia Saudita. I gruppi terroristici come al Qaeda e l’Isis non devono allora fare altro che raccogliere la messe che altri hanno seminato.
L’eccidio di Dacca, nel quale sono stati barbaramente trucidati 9 italiani insieme ad altri 11 ostaggi, confuta questa lettura dei fatti nel momento in cui si scopre che i suoi autori sono giovani appartenenti alle classi agiate, figli di esponenti dell’élite politica e studenti delle scuole più prestigiose del paese. La conoscenza della lingua inglese e la familiarità con le culture non islamiche attraverso i viaggi all’estero non li hanno immunizzati dal contagio con un’ideologia religiosa che prevede sacrifici umani nella forma dell’omicidio rituale con sgozzamento e dell’immolazione di sé in battaglia.
Il non senso della vita, il rancore nei confronti della materialista società mondializzata e il senso di colpa per l’appartenenza alle classi privilegiate spingono verso un approdo dove nichilismo e giustizialismo si fondono: è in nome di una pretesa giustizia divina che i terroristi si sentono legittimati a punire e far soffrire le loro vittime. Teste e cuori vuoti sono più pericolosi degli stomaci vuoti.
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