
Il primato perduto della politica

Caro direttore, negli ultimi giorni ho raccolto la provocazione di due articoli: “Diventeremo cittadini di uno Stato mammone?” di Erbacci e Monteduro (1 aprile) su questa testata e di Piero Sansonetti sul Riformista (28 Marzo).
Il primo descrive in modo chiaro i problemi contingenti del Covid-19 e pone importanti interrogativi sulla necessità di sviluppare risposte chiare e tempestive, nonché del ruolo centrale che la politica, più che mai, assume in questo frangente. Il secondo, invece, tratteggia la decadenza della classe politica italiana, proprio in questo momento decisivo per la storia del nostro Paese. Allora mi chiedo: perché la politica non detiene più un “primato” in Italia? Mi sono dato alcune risposte – risposte di un 38enne “non del mestiere”:
- da Mani pulite in avanti è stato avviato lo “smantellamento” sistematico della casta: perché? Perché la classe politica di allora era corrotta? Mentre la controparte di società con cui faceva “affari” non lo era? E da allora sono finiti gli scandali in politica e nella società civile ed economica (Enron, Volkswagen solo per citarne alcuni)?
- La globalizzazione e il progressivo “primato” della finanza sovranazionale (da Reaganomics in poi):
- tratta le nazioni come vero e proprio prodotto finanziario, in particolar modo in relazione ai titoli di stato ed alla relativa solvibilità (debito / Pil);
- ha postulato che la politica nazionale è un impedimento (vincolo) alla libera circolazione (condizione necessaria per l’ottimizzazione) dei flussi finanziari sovranazionali;
- ha orientato l’Unione Europea a sviluppare prima di tutto il mercato libero e la moneta unica; non a caso il mandato primario della Bce consiste nel contenimento di un fattore di disturbo degli investimenti qual è l’inflazione, mentre (a differenza della Fed) non ha in priorità lo sviluppo della piena occupazione; le riforme “mancanti” funzionali al completamento dell’architettura operativa (fiscale, militare, giudiziaria, etc.) sono sistematicamente rimandate; la privazione della possibilità di “battere moneta” per le singole nazioni ne ha tolto un grado di libertà per l’esercizio di scelte di politica economica autonome.
- La politica diventerebbe un interlocutore paritetico alla finanza se operasse a livello globale (come opera la finanza) – non a caso Fmi, World Bank, etc. sono gli interlocutori privilegiati dell’economia globale; gli organismi locali sono sempre più trattati come feudatari, valvassori e valvassini.
E mi sono fatto alcune domande:
- Qual è il ruolo della politica? La politica è servizio della società, del “bene comune”. Come si articola il trade off del bene delle “élite finanziarie” e dei relativi interessi con il bene delle classi meno abbienti?
- Dall’avvento della “prevalenza” di politiche friedmaniane è più rilevante l’aumento delle disuguaglianze (Stiglitz) o la crescita del Pil totale, con conseguente uscita dalla soglia di povertà di percentuali di popolazione mondiale (crescente) senza precedenti (World Bank)? E quindi la disuguaglianza è un male da combattere con politiche redistributive o è la locomotiva del trickle-down? In questo contesto, quali alternative si offrono alla politica nostrana se non orientarsi tra statalismo inefficace ed inefficiente o “lasciarsi andare” a savage free market e relativi fisiologici shock periodici?
Possiamo aggiungere altre osservazioni:
- Il sistema elettorale maggioritario, combinato al bisogno dei media di “flash news” a getto continuo, ha creato la cultura dello slogan e del talk show contro la ponderazione e lo sviluppo di soluzioni approfondite, facilitando la superficializzazione e la disconnessione (mancanza di visione complessiva) dei problemi tra loro.
- L’introduzione (e la persistenza) delle liste bloccate: in un contesto socio- economico che ne mina il primato, la politica ha fatto l’arrocco per difendere la posizione – immunizzazione dai risultati, si è tentato di dissociare il percorso di crescita dai feedback del “mercato” (voti).
- Lo smantellamento dei partiti tradizionali ha smantellato anche la rete di competenza da cui attingevano – oggi, in tal senso, “resiste” il Pd, mentre i “nuovi” partiti (M5s, Lega), specialmente in momenti di difficoltà come questo, faticano ad orientarsi e improvvisano / balbettano nelle proposte (non basta dire no). Mi fa specie che a fare, a mio parere, il quadro più completo dello scenario economico post Covid sia stato Cagnoli, un professionista della consulenza aziendale. I nuovi (e i vecchi) partiti si rifugiano in un facile statalismo, accusano il “nemico esterno” (mercati, Europa, etc.) – come quando, per chiedere uno sforzo ai colleghi si dice “ce lo chiede il cliente” – ma non producono più idee nuove.
Pertanto:
- la politica è diventato il nuovo teatro di “carriere fulminee senza merito” (casting o televoto);
- se il criterio politico è il consenso ondivago e umorale (non si può sentire che una coalizione abbia perso elezioni regionali cruciali per il destino politico di un paese perché il leader ha sbagliato a fare una citofonata!);
- se la fluidità dei partiti e delle coalizioni non è più ancorata a ideologie e pensieri (strutturati) o basi concettuali stabili – oggi una cosa, domani il contrario;
- Se la politica è ancella della finanza (“ce lo chiedono i mercati”).
Chi glielo fa fare ai giovani di belle speranze di buttarsi in politica? I promettenti e pragmatici non scelgono l’azzardo di una professione (servizio? missione?) incerta, con una vulgata contraria e sistemi di crescita né lineari nè legati al merito!
Magari scelgono la finanza, che invece pare avere il sopravvento o – per lo meno – determinare gli orientamenti della politica (ad esempio, che senso ha che in Unione Europea esistano “paradisi” fiscali?), nonché certo (e ben superiore) per se stessi con buona pace per il “bene comune”.
La finanza è “cattiva”? No, la finanza fa i suoi interessi, cioè massimizzare il ritorno dell’investimento, nel breve e nel lungo termine. E chi tutela chi non investe a livello finanziario (o lo fa con capitali minimi che non consentono l’autosostentamento)? La politica? I sindacati? Quelli che nel percorso “professionale” hanno scelto il piano B o, magari sono stati scartati dal piano A?
Se è vero che vale la pena dare una nuova opportunità alla politica, bisogna metterla in condizioni di operare nel lungo termine quanto meno a pari grado della finanza.
Alcune personali proposte per iniziare qualche ragionamento:
- L’Unione Europea attuale è incompiuta, deve accelerare o la propria completa integrazione (fiscale, giudiziaria, militare, etc.) o, al contrario, orientarsi verso il completo federalismo (fiscale, etc.) – l’attuale stallo architetturale la rende inefficace, quindi, in ultimo, dannosa – ghiotta opportunità per la legge del più forte o per veicolare interessi particolari – volutamente incompiuta?
- I sistemi elettorali devono tornare all’espressione della preferenza (“io scelgo te perché hai fatto / fai / farai qualcosa di bene per me”) – eliminare il listino chiuso che cortocircuita il mandato elettorale e genera meccanismo di autoconservazione / autoriproduzione dei vertici senza alcuna garanzia di allineati a criteri di merito (raggiungimento promesse elettorali).
- Sistemi politici in grado di regolare il mercato (non governare o pianificare, regolare) perché senza il mercato e con la chimera dell’autosufficienza di produzione nazionale (cosa da tempi della paura) o, peggio ancora, della decrescita felice (magari green) si riducono i bacini di opportunità e aumentano le disuguaglianze tra nazioni (ampiamente dimostrato, ad esempio, dall’Istituto Bruno Leoni).
- Non bisogna smantellare i “privilegi” della casta, bisogna trattare i politici da manager: stipendi e bonus allineati con i top manager aziendali (che oggi muovono veri e propri Pil) agganciati al raggiungimento di risultati oggettivi (Pil, debito, deficit, efficienza, disoccupazione) nel breve e lungo termine, certificati da terzi – come per qualunque azienda, magari quotata. La connessione tra finanza, rischio paese e debito pubblico è così evidente dalla crisi del 2008 che non è necessario approfondire i nessi tra mercato e “prodotti nazione”.
- Bisogna rendere la professione politica per lo meno competitiva in termini di attrattività per i migliori QI che possano optare per questa anziché Google o Goldman Sachs.
- Serve una scuola (equivalente alle Business School) che formi la classe politica, con preparazione, metodo e merito, magari attingendo o sviluppandosi dallo stesso bacino che oggi attira e prepara i “talenti” della finanza o del tech.
- È necessario rivalutare il finanziamento pubblico dei partiti, abolito sull’onda del “picconamento” della prima repubblica: la politica è IL servizio pubblico per eccellenza o no? Sono soltanto gli incarichi pubblici a meritare di essere finanziati dallo stato o i partiti, tradizionali scuole di formazione e di test dei politici, non sono forse gli alvei in cui favorire lo sviluppo delle classi politiche? Oggi vige il sistema delle fondazioni (modello anglo – US) che, sostenute da privati, orientano il mandato dei politici secondo i propri interessi – com’è ovvio che sia. La mancanza di un contesto di opportunità chiare (sostentamento e percorso di crescita) è uno dei principali deterrenti per i giovani che si approcciano alla politica e che, se non hanno le spalle coperte, spesso fanno altre scelte di necessità (magari si fermano ad impegni part time – es. consiglio comunale – perché è difficile “campare di politica”). Nelle grandi corporation i giovani entrano e, lavorando sodo, arrivano ai vertici: perché non è possibile consentire un’opportunità del genere ai partiti politici?
Spero di aver dato alcuni spunti per alimentare un dibattito costruttivo.
Michele Navacchia
Foto Ansa
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