Il nuovo Batistuta, il nuovo Rooney, il nuovo Maradona? Non sparatele troppo grosse
Il calcio ha bisogno da sempre di nuovi eroi, di facce da leggenda, di miti formato esportazione. In generale, di un popolo, si dice “beato quello che non ha bisogno di eroi”, ma il calcio è un culto particolare, senza eroi non va avanti. Senza paragoni si intristisce. Perfino io, quando calcavo i campetti spelacchiati di periferia nei turbolenti Seventies, avevo un soprannome: Josè. Perché giocavo con la sua intelligenza di fine carriera. Un attaccante che bivaccava ai margini del gioco per poi, improvvisamente, come Altafini nei suoi ultimi anni di carriera alla Juventus, emergere dal nulla per segnare gol importanti e decisivi. E dopo questa citazione autoreferenziale da vecchio trombone ma anche per farvi capire l’andazzo, ecco un fior da fiore di quello che negli ultimi trenta-quarant’anni, è diventato classico nel modo di fare giornalismo, ma che ai tifosi di calcio piace tanto: l’arte del paragone. Non che prima non esistesse naturalmente, il calcio è bello perché non s’inventa niente, tutto è già stato fatto anche se con altri nomi e con altre forme.
Poi, a noi italiani, questo gioco piace. Chi assomiglia a chi? A volte è anche un modo di ironizzare (o auto-ironizzare) su noi stessi e il nostro modo di vivere il pallone così sopra le righe. Forse i più giovani non ricordano Ugo Tosetto da Cittadella che Nils Liedholm definì “il Keegan della Brianza” perché, anche se era veneto, il Milan lo prese dal Monza. La faccenda gli costò la carriera, anche perché Keegan era un’ala mentre il povero Tosetto una seconda punta, così si vide la strada sbarrata da Buriani e non venne mai utilizzato nel suo ruolo. Il vecchio inimitabile Barone svedese era una specie di Avvocato Agnelli, gli piaceva la prima freddura, il primo accostamento, la prima boutade, il primo nome che gli veniva in mente. Certo, l’Avvocato stupiva di più con quei paragoni trasversali, calcio-storia dell’arte: Baggio-Raffaello, Del Piero-Pinturicchio, ma siamo su quella linea lì. Liedholm, su cui un giorno dovremo tornare per raccontarne le gesta, era un mito in fatto di iperboli: dopo Tosetto si esibì con Mandressi, “il nuovo Rensenbrink”, e riuscì ad accostare Luciano Gaudino da Poggiomarino (Napoli) a Gunnar Nordahl. In quei tempi qualcuno affibbiò a Giuseppe Galluzzo di Siderno, attaccante di scorta del Milan degli anni bui (quelli delle retrocessioni in B) il titolo di “nuovo Garrincha”.
I Maradona locali e nazionali
Per cui, tutto quello che sentite oggi, c’è sempre stato. Ovviamente non tutti i paragoni sono uguali, ce ne sono alcuni più uguali degli altri. Diego Armando Maradona, il Pibe, il più grande di tutti, ad esempio, vanta innumerevoli tentativi di imitazione. Il primo è stato suo fratello Hugo, ma non per colpa sua. Anzi Hughetto forse voleva fare la sua vita, percorrere la sua strada, ma quando hai il sangue del più grande calciatore di tutti i tempi, l’unico capace di vincere un Mondiale da solo, tutti si aspettano che diventi come lui o per lo meno che ti avvicini al Mito. Non è andata così. Poi ci sono diversi Maradona nazionali o locali. Gheorghe Hagi, romeno, numero 10 estroso e latino, è diventato “il Maradona dei Carpazi”. Nel Mondiale del 1994, negli Stati Uniti, i due si sarebbero dovuti incrociare negli ottavi di finale a Pasadena (3 luglio), ma la sfida tra i Maradona svanì per la positività ai controlli anti-doping dell’originale, un fatto ancora oggi oggetto di culto misterico come le piramidi Maya e l’assassinio di Kennedy. Belözoglu Emre in patria era chiamato il “Maradona del Bosforo” ma del mitico Pibe ha avuto ben poco. Tra l’altro è passato, insalutato ospite, anche in Italia, indossando la maglia dell’Inter. E poi ci si stupisce se quella squadra non vinceva. Vogliamo parlare della differenza tra lui e lo Sneijder del Triplete? Di Maradona ce ne sono un tanto al chilo. Noi abbiamo il Maradona del Salento, Fabrizio Miccoli, che, per una certa esplosività, ricorda l’originale. Per assomigliare al suo idolo ancora di più, Miccoli ha comprato all’asta un orecchino sequestrato al Pibe (notoriamente indebitato con lo Stato per questioni di tasse: deve più di 37 milioni, in aumento costante per via degli interessi) per 25 mila euro. Come gli altri Maradona anche Miccoli ha dei colpi di genio e una serie di tatuaggi (11) che raccontano la sua vita. Tra questi ha in comune con Diego il volto di Che Guevara, passione del Maradona del Salento e anche dell’originale, grande fan della rivoluzione castrista (oltre che di Minà, Paco Peña, Mimmo Locasciulli, Alberto Juantorena e Mohammad Ali) e di Cuba, dove va sempre a rimettersi in sesto dopo qualche acciacco, fisico o morale.
E se Leo Messi è l’erede (si badi bene, erede, non nuovo Pibe) designato di Maradona, a sua volta la mitica “Pulce” ha già prodotto dei cloni, almeno da un punto di vista giornalistico. Gabriel Andrei Torje, 23 anni, di Timisoara, è stato scoperto da Hagi, il Maradona dei Carpazi, ed è immediatamente diventato il “Messi di Romania”. Intercettato dalla rete di intelligence dell’Udinese, dopo un anno alla corte di Guidolin è stato mandato al Granada, in prestito, per proseguire la sua crescita. In rete gira un video di Jin-Hyuk Kim presunto Messi nordcoreano. Undici anni, sarebbe la promessa del regime di Pyongyang. Il condizionale è d’obbligo perché sulla rete girano tali bufale da far accapponare la pelle e perché di quello che succede nella Corea del Nord sappiamo ben poco.
I paragoni sono interessanti, ma non ci prendono quasi mai. Sono un gioco di società, però come Monopoli o Risiko dovrebbero mantenere un certo livello di serietà. Per esempio, Claudio Marchisio è più simile a Steven Gerrard che a Marco Tardelli, ma l’ha dovuto spiegare più volte al mondo prima che venisse abbandonato il primo paragone. Però se non altro Marchisio è un dei migliori centrocampisti dell’ultima generazione e lo ha dimostrato. A volte i paragoni azzoppano. A Marko Livaja, croato, 19 anni, pupillo di Andrea Stramaccioni, campione d’Italia e di quella che è stata definita una sorta di Champions giovanile (NextGen Series: dove Stramaccioni ha sedotto Moratti) sono bastati due gol in Europa League e qualche apparizione per conquistarsi un accostamento a Wayne Rooney. A parte il fatto che gli auguro di tenersi i capelli, bisogna stare attenti. Da quando Mattia Perin, capelli alla George Harrison, è stato battezzato come il nuovo Buffon, ogni tanto sbanda un po’. Di sicuro è un giovane e valente portiere che è capitato nel posto sbagliato (il Pescara prende troppi gol e non si distingue quanto c’entri il numero uno o quanto sia incolpevole).
Una giovane speranza azzurra
A proposito di Pescara, uno dei gioielli della smantellata Zemanlandia 2011-2012, Marco Verratti, enfant du pays, cioè proprio di Pescara, talento di appena 20 anni finito alla corte dello sceicco di Parigi, inserito dalla rivista spagnola Don Balon nella lista dei migliori giovani calciatori nati dopo il 1991, è stato accostato ad Andrea Pirlo. E qui sono d’accordo. Visione di gioco, palleggio, posizione (primo terminale del passaggio davanti alla difesa, amministratore di gioco) ne fanno una delle grandi speranze italiane per il Mondiale 2014. Con due anni in un grande club e un gruzzolo di partite internazionali nei piedi (e in testa), insomma con l’esperienza necessaria, può diventare uno dei protagonisti della nostra nazionale. Vedo meno simile a Pirlo, Paul Pogba, anche se Conte lo considera il sostituto ideale del Sommo Regista. Lo hanno paragonato a Vieira. Non so. Mi sembra che proceda meno con spallate, che usi di più il fioretto. Di sicuro, se non perde tempo e arriva puntuale agli allenamenti, diventerà grandissimo.
Stesso discorso per M’baye Niang, 18 anni tra un mese, compagno di Pogba nell’ottima nidiata dei figli della banlieu, quelli che hanno sempre fatto grande la Francia, a cui è stato prontamente affibbiato il soprannome di “nuovo Henry”. Il Milan punta molto su questo ragazzo, ma vale lo stesso discorso: attenzione a non cadere nel lato oscuro della forza, quello che gli ha fatto guidare un’auto senza patente e, quando è stato intercettato da una pattuglia della polizia locale, lo ha spinto a spacciarsi per il compagno di squadra Traoré (che, dicono i milanisti, non è servito neanche a questo).
La sfida più difficile
Dorlan Mauricio Pabón Ríos viene dalla Colombia e a Parma non hanno perso tempo ad accostarlo al mitico Tino Asprilla, grande appassionato di donne, auto, gol spettacolari e rubinetti (un giorno spese un botto di milioni per acquistarne centinaia sostenendo che a casa sua non ne aveva di così belli). Pabón poi è stato paragonato anche a Giovinco (è piccolo) e a Crespo (è, o almeno dovrebbe essere, letale come l’argentino). A Marco Possanzini è pesato un cicinin il titolo di “Ronaldo dello stretto” quando entusiasmava la curva della Reggina. Perché il problema è sempre lo stesso, quando viene affibbiato un soprannome, quando si spreca un paragone, c’è un punt (di ironia) e mes (di serietà). Però qualche aggancio ci deve essere. Osvaldo è stato nominato “il nuovo Batistuta” e qualcuno ha creduto che, a Roma, avrebbe potuto fare come il Re Leone, artefice dello scudetto del 2001. Chissà. Per ora c’è qualche problema. A Fabio Borini è toccato invece in eredità “il nuovo Inzaghi” (copyright Carlo Ancelotti e se l’ha detto lui, siamo tutti sull’attenti), certo che continuando a fare avanti e indietro dall’Inghilterra (adesso sta al Liverpool) più che il nuovo Inzaghi diventerà il ragazzo con la valigia sempre in mano. Attaccante di lungo corso in Italia (ora al Vaslui), il bianchissimo brasiliano Adaílton divenne “il nuovo Romario”. Per me aveva sicuramente la sua età, ho sempre pensato che fosse più anziano di quello che dichiarava.
Non so se Eden Hazard, belga, 21 anni, sarà “il nuovo Zidane”. Di sicuro è costato tantissimo al Chelsea, 40 milioni di euro. Di sicuro è un ottimo giocatore, ma lo vedo un po’ decentrato rispetto al fumantino Zizou, più punta esterna, trequartista, ma diverso dal principe di Marsiglia. A proposito di Zidane, mi sembra adatto, per chiudere questo racconto su paragoni, soprannomi, accostamenti pallonari più o meno azzeccati, dire che anche i più grandi intenditori di calcio sbagliano. Quando l’uruguaiano Fabian O’Neill venne ingaggiato dalla Juventus (per 20 miliardi, non pizza e fichi) Lucianone Moggi sentenziò: «Questo diventerà più forte di Zidane». Ovviamente se ne sono perse le tracce. La sua carriera è finita mestamente in Uruguay, da dove era partito con ben altre speranze, e di lui resta solamente l’immagine dei parastinchi bassi, restano le parole al vento di promesse non mantenute. Perché la morale di tutto questo è che un calciatore, prima di essere qualcun altro, come tutti noi, deve essere se stesso. Ed è la sfida più difficile da vincere.
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