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Il mistero di Tham Luang, che ci ha messi tutti in ginocchio

Qualcosa di ancestrale, una riverenza primordiale scorre fuori insieme al fango e ai ragazzini tutti ossa e palpiti dalla montagna thailandese. Ecco perché siamo tutti davanti a quella grotta

Caterina Giojelli
10/07/2018 - 1:00
Esteri
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Sarebbe facile stare davanti alla grotta di Tham Luang, in Thailandia, saccheggiando formule di eroica probità umana e religiosa, prediche e parabole, e cancellare dal corpicino dei sopravvissuti alla montagna le loro facce illuminate da una torcia nel preciso istante in cui sono stati ritrovati.
Era il 2 luglio, da dieci giorni per dodici piccoli calciatori di una squadretta di calcio locale e per il loro allenatore 25enne non c’era più il giorno e la notte – la immaginate, la solitudine immensa che penetra nelle ossa di una creatura piccola, in balia dei gocciolii, dei risucchi e degli sciabordii che rimbombano nell’oscurità, i piedi impastati di fango, gli occhi aperti nel buio che a quell’età è popolato di mostri e spiriti? Dieci giorni a rubarsi l’ossigeno, ad aspettare come, ad aspettare cosa? Poi, un fascio di luce nel grande utero nero, una voce di uomo aveva chiesto loro quanti erano, siete forti, aveva ripetuto, siete qui da dieci giorni, torniamo a prendervi.

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BAMBINI COME SPETTRI. Li abbiamo visti, nei video dei soccorritori, con le gambe sottili come stecchi, la faccia ridotta a ostie spettrali, accartocciati come statuine di un vecchio presepe di stagnola nelle coperte termiche luccicanti, osservare straniti medici sorridenti medicare i piedi ossuti, pronunciare il loro nome a favore di telecamere a mani giunte, come soldatini sperduti. Abbiamo anche letto i loro messaggi inviati ai genitori, e non abbiamo creduto fino in fondo a quelle parole così strane, «stiamo bene, sto bene, un po’ freddo, un po’ fame, non preoccupatevi», quelle rassicurazioni trionfalmente consegnate a mo’ di dispaccio ai giornalisti all’imbocco di Tham Luang, insieme ad annunci confusi, contraddittori, mentre le nuvole sopra la montagna tornavano ad addensarsi.

UN FOTTUTO SUICIDIO. È stato scritto che il salvataggio dei tredici rimasti intrappolati in quella grotta dopo essere stati sorpresi da un’alluvione, è l’operazione di soccorso più grande mai attuata in Thailandia; per loro si è mossa la comunità internazionale, è arrivato Musk, spiegavano le autorità, abbiamo la tecnologia israeliana, srotoleremo un tubo per portare ossigeno fino ai ragazzi, ecco i sub migliori del mondo, abbiamo trovato un “camino” sopra la testa dei bimbi, li faremo uscire da lì.
E poi? Poi succede che il sommozzatore volontario Saman Kunan, ex membro dei Navy Seal di 38 anni muore mentre è impegnato negli interventi di salvataggio, l’ossigeno cala, il tubo non arriva mai a destinazione, lo speleologo esperto spiega che portarli fuori dal camino è un «fottuto suicidio», il governo che parla di un addestramento di quattro mesi fa retromarcia, in due giorni devono uscire, viene interdetta l’area ai giornalisti, partono le operazioni. E in tv arrivano i plastici della montagna, e finalmente capiamo cosa significa uscire da lì, da quel dedalo di sporgenze, correnti, melma, buio e apnee – e pensiamo, chi mai delle piccole creature qui accanto a noi farebbe una cosa del genere?

SCAVA, SCAVA. Abbiamo cercato di adottarli, questi bambini, come sempre accade quando i Ciro rimangono sotto le macerie del terremoto di Ischia, e i minatori cileni nella miniera di San Josè, ma è stata un’impresa impossibile: pochissimo è uscito sui calciatori, qualcosa sull’allenatore Aek orfano di padre e madre e fratello, cresciuto dai monaci buddisti, responsabile del folle gesto di condurre i suoi calciatori nella grotta (c’erano i cartelli, è tutto un ripetere in Thailandia, non dovevano entrare, chissà quanto ci costa), ma anche del loro tenerli in vita, un ragazzo orfano colpevole e padre nel ventre della montagna matrigna.
E non ci siamo veramente riusciti, è mancato il teatro delle passioni, il manierismo dei sentimenti: scava scava era più l’acqua drenata dalla montagna che le informazioni cavate dagli inviati sugli intrappolati e le loro famiglie all’uscio. E forse è stata proprio l’impossibilità di mettere in prosa la paura, tradurre in sillabe l’angoscia di quei genitori e dei bambini ad averci assaltato di domande e condotti tutti all’imbocco della grotta a cercare quell’alito di vita dove atona sembrava la tragedia.

I PREDATORI E LA MONTAGNA. La Thailandia, dittatura militare dal 2014, fino a qualche anno fa utero in affitto per eccellenza del mondo intero, paradiso dei pedofili e dei predatori di bambini, dove si stima che il 30 per cento della forza lavoro sia costituita da minori e 300 mila sono avviati alla prostituzione, ha sospeso il fiato per dodici ragazzini e il loro allenatore caduti in una montagna. In quella terra dannata e brutale, la speranza di riaverli vivi da un troppo grande nemico ha messo tutti in ginocchio. Certo, ci sono le telecamere, Musk, e tutto quello che sappiamo. Ma c’è soprattutto la montagna che dissotterra gli archetipi su cui si fonda la vita stessa.
Qualcosa di ancestrale, una riverenza primordiale scorre fuori insieme al fango vischioso che in queste ore ci sta restituendo i ragazzini tutti ossa e palpiti e gambe sottili come fili d’erba. Come Cerere scese agli Inferi per cercare la figlia, così un gruppo di uomini in queste ore accende lumini ardenti e srotola il filo di Arianna per portare alla luce fanciulli incatenati come nella caverna di Platone, una gola tra cielo e terra le cui pareti portano con sé i ricordi di un’epoca glaciale, dove l’unica legge è quella dell’energia tellurica, e i suoi abitanti i mostri, i draghi e gli gnomi delle leggende popolari, gli spiriti dell’oltretomba di tante religioni, dove tutto è origine e rinascita, dove sulla vulnerabilità di un bambino di Betlemme è iniziato per i cristiani il mondo intero.

IL VISCERE DELLA VITA. Diffidare di una facile morale che ancora una volta faccia del sentimentalismo il suo unico criterio (così che questa attesa fuori dalla grotta non si estingua nella tentazione del volerne trattenere solo l’intensità), e dalla cupa parodia di una società che in queste ore in altri servizi e pagine di giornali, ha riempito la possibilità della salvezza di oggetti e costrutti sociali. E forse è questo il mistero di Tham Luang, l’illuminarsi a un passo dall’inferno, nelle viscere delle montagna – che non vuol concedere più vita e respiro alla più piccola delle nostre creature –, del viscere stesso di ciascuna vita.

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