Ho visto la fine della civiltà. E la rinascita

Di Francesco Benati
24 Maggio 2023
Diario dell’alluvione da Lugo di Romagna. Dove oggi quasi tutti, se chiedi, rispondono: «A noi è andata bene». Ed è vero. Perché l’acqua non è venuta con violenza, ma non solo per questo
Alluvione a Lugo di Romagna
Foto Francesco Benati

Lugo. A un certo punto, secondo me, ci siamo messi in testa che questa volta saremmo stati risparmiati solo noi. Chissà per quale ragione, forse pensavamo di essere meglio degli altri. La prima ondata, tra l’1 e il 4 del mese, ci aveva lasciati intatti in mezzo a una sventagliata di disastri idrogeologici, dall’Appennino a scendere. I fiumi avevano smattato tutti, prima di tutti il Lamone che a Faenza e sopra Faenza aveva fatto sconquassi, rompendo gli argini e entrando in casa della gente senza bussare. Il Senio e il Santerno che delimitano il territorio di Lugo erano usciti in più punti, dove con più violenza dove meno. Non qui. Poi è stato annunciato un altro picco di precipitazioni eccezionali, un’altra allerta meteorologica regionale, ma noi eravamo ancora ottimisti.

Il 15 di maggio, quasi alla vigilia del momento di massimo pericolo, abbiamo celebrato la festa del Patrono, sant’Ilaro; e per giunta eravamo appena usciti dalla settimana delle Rogazioni alla Madonna del Molino, anche lei nostra protettrice. Per la maggior parte dei cittadini Sant’Ilaro vuol dire principalmente la Contesa, competizione e festa rinascimentale, grandi mangiate, tifo rionale. Noialtri bravi cristiani avevamo anche pregato il Santo, come da tradizione, che ci proteggesse dalle calamità.

Eravamo anche a posto con la coscienza insomma. Poi è vero, nel mio caso personale ad esempio qualche ragione di preoccupazione c’era. Nel 2020 trasferirmi proprio sotto il canale mi era sembrata una cosa poetica, adesso mi veniva il dubbio che non fosse stata una scelta così lungimirante. Comunque, anche dopo un giorno e mezzo di pioggia forte e costante, con le scuole chiuse per due giorni, coi fiumi che andavano uno dopo l’altro in codice rosso, io ero ancora nella squadra degli ottimisti. E siamo arrivati a mercoledì scorso, il 17.

L’attesa dell’inondazione

La mattina il tempo faceva regolarmente schifo. Alle 13 c’è stata la diretta del sindaco che non lasciava molto spazio a dubbi: Solarolo e Barbiano erano sotto, l’acqua stava arrivando da sud e da ovest. Uscita dal fiume allagava le campagne, i fossi e convogliava tutta verso il bacino di laminazione, creato una decina di anni fa per aiutare a gestire le situazioni di emergenza idrica. I cittadini di Lugo Sud e Ovest sono invitati a lasciare i primi piani delle abitazioni o se impossibilitati a trasferirsi altrove.

Oltre a seguire le indicazioni del potere pubblico quello che realmente faranno i cittadini è uscire dalle case, guardarsi negli occhi increduli e spaventati, fare domande, iniziare più o meno a improvvisare la messa in sicurezza dei possibili accessi d’acqua, convergere in massa verso la zona a rischio. Io lascio il canale e mi trasferisco con mia mamma e mia sorella nella casa di famiglia sulla curva del circondario – punto di osservazione ideale, scopriremo più tardi, sulla catastrofe. Poi si va in giro per le strade. C’è un’atmosfera nuova, tesa certamente; alla gente stavolta non basta sapere o “essere informata”, vuole vedere coi suoi occhi.

Spirito selvatico

In montagna l’acqua arriva come una mandria di bufali impazziti; in pianura se la prende comoda, si stende, allarga le gambe. Mentre inizia piano piano a tracimare dal bacino e invade il quartiere antistante, cominciano a vedersene delle belle. Lo spirito di questa gente romagnola è un po’ strano, selvatico. Alcuni esempi: passo da un amico che sta cercando di mettere a tenuta gli ingressi di casa con del pluriball, aiutato da un parente. Finito di fare del suo meglio, guarda il parente – peraltro già sfollato da casa sua a San Lorenzo, dove il fiume ha spazzato via le case – che commenta: Meglio che un calcio nei maroni. Qui è così, qualsiasi sforzo umano sarà sempre meglio che un calcio nei maroni.

Qualche ora più tardi, si sta riempiendo l’asse viaria principale del quartiere, la via Paurosa – è da una vita che mi chiedo perché si chiami Paurosa e oggi credo di capire –, la gente finalmente ha paura, esce in strada. C’è un signore dalla conformazione di un boiler, con due gambe magre magre a mollo fino ai polpacci, in bermuda gialli a torso nudo. Sta in mezzo alla strada come se fosse il padrone lui, sembra un dio batrace delle acque reflue. A un certo punto passa un Suv alzando due ali di acqua e bagnando tutti. L’uomo rana gli bestemmia contro e aggiunge: U j va in t’e cul prema ch’in t’la tësta. È vero purtroppo, ma vale per noi tutti: ci entra in culo prima che in testa.

Acqua dappertutto

Per due, tre ore rimane ferma esattamente dove comincia il centro, davanti a casa nostra, dopo aver allagato la zona dietro. Lei è lì e tutta la gente davanti a guardare, fino alle due, alle tre di notte. Poi, arrivata a livello, inizia a scendere in città. A noi entra prima in giardino. Io, dopo una nottata in giro a sbattermi senza troppi risultati, vado a dormire alle sei sperando ancora che resterà fuori. Alle nove mi sveglia mia madre per dirmi che è entrata in casa. Poca roba, dieci centimetri. Comunque sufficiente per bloccarci al primo piano, senza corrente.

Dalla finestra vediamo acqua dappertutto, corre verso il centro come un fiume. Davanti a casa si crea una specie di centrale di smistamento dei soccorsi, si fermano i pompieri, l’esercito, la protezione civile. Un soldato mi chiede una sigaretta, gli indico il bar della Coltellata qui a fianco che vende i tabacchi. Il proprietario cinese se n’è appena andato; domani saranno i primi a riaprire la saracinesca. In queste circostanze si vede quali sono i beni di prima necessità: il tabacco rientra nella categoria senza alcun dubbio. Per il resto, noi abbiamo cibo e da bere.

Si comincia a individuare chi è bloccato in casa, chi è invalido, chi ha bisogno di essere recuperato coi gommoni o altri mezzi. Ma finché l’acqua è dappertutto e non si stabilizza la situazione, c’è poco da fare. La sera, in camera a lume di candela prendo in mano il volume di Guareschi e trovo questo brano:

«La storia non la fanno gli uomini: gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia. E la storia, del resto, è in funzione della geografia. Gli uomini cercano di correggere la geografia bucando le montagne e deviando i fiumi e, così facendo, si illudono di dare un corso diverso alla storia, ma non modificano un bel niente, perché, un bel giorno, tutto andrà a catafascio. E le acque ingoieranno i ponti, e romperanno le dighe, e riempiranno le miniere; crolleranno le case e i palazzi e le catapecchie, e l’erba crescerà sulle macerie e tutto ritornerà terra. E i superstiti dovranno lottare a colpi di sasso con le bestie, e ricomincerà la storia. La solita storia».

Mai visto una cosa del genere

La fine della civiltà non sembra uno scenario così stravagante, al buio, circondati dall’acqua e con la batteria del telefono a rischio di esaurirsi da un momento all’altro. Il giorno dopo anche la rete telefonica di Vodafone se ne va a ramengo. Ma soprattutto inizio a intuire le proporzioni di quello che è successo: è un evento catastrofico senza precedenti. Nessuno aveva mai visto una cosa del genere. La Bassa Romagna vista dall’alto adesso sembra un immenso acquitrino; cioè è tornata quello che era prima delle grandi bonifiche, iniziate più o meno cinquecento anni fa.

Nei giorni successivi sfoglio vecchie cronache in cerca di precedenti con cui fare il raffronto; nel 1842, pare, Lugo fu sommersa dalla piena del Senio. Ma tutta la regione? Nel frattempo l’acqua, piano piano, comincia a defluire. Il venerdì è il giorno in cui si avvista la terra ferma; possiamo scendere dal piano superiore e metterci al lavoro. Dopo un po’, prendo prima la bicicletta e poi la macchina e vado in giro a vedere. Vedo la piazza di Lugo e il Pavaglione trasformati in un immenso bidè. Vedo un uomo disperato perché non sa come fare a portare del cibo alla figlia e ai nipoti, bloccati nella strada sommersa. Dopo qualche minuto arrivano due con i kayak che si offrono di prendersene carico. A quel punto iniziano a palesarsi persone con le richieste più disparate per amici o parenti bloccati in casa. Vedo gente in ginocchio ma vedo anche altra gente che come può prova a tendergli una mano. Vedo soprattutto la gente tirare fuori tutto quello che ha, a cominciare dal sorriso – e non dico per fare della retorica alla De Amicis, ho visto più gente contenta in questi due giorni che in un mese normale.

Graziati nella disgrazia

Quasi tutti, se chiedi, rispondono: «A noi è andata bene». Ed è vero, in molti casi. A Lugo, nella disgrazia, siamo stati graziati. L’acqua non è venuta con violenza. A Sant’Agata, comune limitrofo, dove il fiume ha rotto l’argine, chi è stato a vedere racconta di scenari da terzo mondo. Le case sventrate, metri di fango nella strada. La disperazione di chi ha perso tutto spinge alla rabbia: un amico andato ad aiutare riporta la scena di una rissa sfiorata tra residenti e operatori della Protezione civile. Un altro amico sintetizza così: che la tragedia tira fuori il meglio e il peggio dagli uomini. Non manca neanche chi recrimina, chi cerca i colpevoli, chi fa calcoli per un suo tornaconto. E verrà anche il tempo delle responsabilità, questo è certo. Ma oggi, in noi che bene o male ci rendiamo conto prevale lo stupore per il torrente di grazia. Si cammina per le strade, nel sole che finalmente è tornato a splendere, quasi frastornati dalla sovrabbondanza: di incontri, di amici nuovi o vecchi, di occasioni di fare del bene, e sovviene la parola dell’Apostolo: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto».

Un dato condiviso da tanti è la sensazione che l’alluvione sia stata anche un’opportunità colossale per fare spazio: in tutti i sensi, prima di tutto quello materiale. A oggi, martedì, le strade sono ingombre di roba da buttare via: mobili, elettrodomestici, stoviglie, quadri, libri, qualsiasi cosa. I genitori, i nonni piangono a separarsi dai ricordi di una vita; ma molti figli pensano «era ora». Quello che ci è successo ci ha fatto ripartire tutti da zero; ci ha fatto rinascere dal niente. E quando si è rinati il sentimento dominante è la gratitudine. Solo il tempo e la fatica – e ancora tanta ce ne aspetta – ci diranno di quanta parte di tutto questo saremo capaci di fare tesoro.

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