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Mio caro Malacoda, inizio questa lettera lunedì 19 febbraio 2024. Tre giorni dopo la morte “incidentale” di Aleksej Navalny, il dissidente russo imprigionato in una geenna siberiana (per tua informazione il nome originario indicava una valle maledetta a sud-ovest di Gerusalemme in cui venivano offerti sacrifici umani e che era destinata a immondezzaio della città, poiché vi ardeva continuamente il fuoco: insomma un inferno in terra) dove era recluso sostanzialmente perché si ostinava a essere se stesso. Qualcuno potrebbe dire (e forse qualcuno l’ha detto) che Navalny in fondo se l’è cercata. Vittima di un primo tentativo di avvelenamento nel 2020, era tornato in Russia cosciente che sarebbe finito in galera. E così è stato.
In galera ci è rimasto, in fondo, poco. In galera è morto. Ha rinunciato alla sua libertà per non rinunciare alla sua dignità, per continuare a essere libero.
Mentre ti scrivo, ancora non c’è traccia del suo cadaver...
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