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Filippine, l’incredibile storia del carcere distrutto dal tifone e ricostruito dai detenuti

Tra prigionieri che hanno fatto ritorno al penitenziario raso al suolo, c'è anche un ergastolano 82enne che si proclama innocente. «Tre pasti decenti al giorno sono un privilegio in un paese povero come questo»

Redazione
28/12/2013 - 16:21
Esteri
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A quasi due mesi dal passaggio del tifone Haiyan, o Yolanda, che all’inizio dello scorso novembre ha devastato le Filippine lasciando dietro di sé 6 mila morti, quasi 2 mila dispersi e 27 mila feriti, emerge dalle rovine di Tacloban, la città colpita più duramente dal cataclisma, una storia che ha dell’incredibile. In un villaggio a una decina di chilometri da qui, infatti, tra i primi edifici ricostruiti risulta esserci il carcere. E a rimetterlo in piedi sono stati i proprio i suoi 583 “ospiti”.

L’ERGASTOLANO INNOCENTE. Come racconta Luigi Guelpa sul Giornale, due mesi fa quasi tutto nel villaggio di Leyte è stato raso al suolo dalla furia di Haiyan, compresa la prigione locale. Ma i detenuti, ritrovatisi all’improvviso in libertà, anziché darsi alla fuga approfittando della situazione, «dopo aver fatto visita ai parenti, e aver sepolto quelli deceduti, hanno fatto ritorno a Leyte» per ricostruire la loro “casa”. «Non c’era neppure più il portone», spiega l’82enne Alberto Encina, uno dei carcerati, citato dal quotidiano. «Ma come per incanto tutti assieme, compreso il direttore, siamo riusciti nello spazio di poche settimane a rimettere in piedi il penitenziario». La vicenda personale dell’ergastolano Encina per altro aggiunge dell’incredibile a questa storia già quasi marziana: «Sono innocente. L’ho spiegato fin dall’inizio. Non mi hanno voluto credere. Da queste parti permettersi un avvocato è un lusso per pochi. Quello che mi è stato assegnato si presentò in tribunale ubriaco».

«LA CELLA UN PRIVILEGIO». Comunque il fatto che questo anziano signore abbia scelto di finire di scontare un ergastolo, e per giunta immeritato (almeno a suo dire), anziché darsi alla fuga, ha una spiegazione. Ed è lo stesso Encina a darla: «Le Filippine sono un paese molto povero, per queste ragioni rimanere in una cella, potendo consumare tre pasti decenti al giorno, e usufruire di qualche attività ricreativa, diventa un privilegio per pochi eletti». Di qui la decisione dei detenuti di ricostruirsi la galera per poterci tornare dentro. Decisione che al direttore del carcere George Gaditano non risulta neanche tanto strana: «Non sono rimasto sorpreso più del dovuto. Le condizioni di accoglienza del nostro carcere sono del tutto umane».

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PECCATO DOVERE USCIRE. Il detenuto 36enne Alphinor Serrano, finito dentro per vari furti di automobili, conferma: «Prima di entrare a Leyte non sapevo né leggere e neppure scrivere. Grazie ai libri della biblioteca oggi non sono più analfabeta, e neppure un ladro d’auto». Come gli altri prigionieri, anche Serrano sembra dispiaciuto di dover lasciare un giorno quel carcere appena ricostruito. Il Giornale riporta anche notizie della stampa locale secondo le quali «il 95 per cento della documentazione processuale dei detenuti è andata distrutta durante l’uragano e, senza uno straccio di prova scritta, chiunque di loro potrebbe chiedere in qualsiasi momento di abbandonare il penitenziario. I carcerati lo sanno bene, ma fanno finta di nulla».

Tags: carcerefilippineil giornaletaclobantifone filippinetifone haiyan
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