Enrico Mattei, l’uomo che accese il futuro

Di Caterina Giojelli
02 Novembre 2012
Formò e diede fiducia alla generazione del miracolo economico. Immaginò il domani insieme a giovani preparati e irriverenti. E affidò la sua impresa a ciascun lavoratore. Così un garzone marchigiano fece di una nazione sconfitta una potenza industriale

«Nella pacata e laboriosa compagnia dei matelicesi si è svolta e temprata la mia giovinezza: e dalla dolcezza dei colli che ci attorniano, e che i nostri forti e sapienti agricoltori hanno trasformato in ubertoso giardino, ha origine quella calma nel fronteggiare gli eventi che mi assiste e mi aiuta nelle vicende più dure. È da voi, magari senza riuscire, che ho cercato di imparare la tenacia nel lavoro, la parsimonia, la sobrietà, e quella tendenza a marciare diretto, senza furberie e sotterfugi che tante volte disorienta gli avversari, quando credono che i matelicesi siano simili a loro» (Conferimento della cittadinanza onoraria di Matelica, 28 giugno 1953)

Ebbene stava tutta lì, in quella fisionomia asciutta di ragazzino e lo sguardo fiero – uno sguardo suvvia importante per un verniciatore di letti nella fabbrichetta di letti di Cesare Scuriatti –, la forza che avrebbe cambiato la storia. Più alto di un soldo di cacio, più bello dei coetanei che dopo la Grande Guerra si avvicendavano attorno ai lattoni di lucido e scheletri di metallo, il tredicenne Enrico Mattei non aveva lasciato la scuola tecnica superiore per caso, ma per necessità. Era nato, primo di cinque figli, ad Acqualagna, in provincia di Pesaro, il 29 aprile del 1906, il giorno in cui si festeggia santa Caterina da Siena, la patrona d’Italia che aveva promesso ai discepoli: «Se sarete quello che dovete essere, metterete a fuoco tutta Italia». Casualità o meno, il giovane Mattei d’Italia ne aveva bruciata in fretta un pezzetto intravedendo una possibilità di indipendenza economica non appena il babbo Antonio, brigadiere dei carabinieri, era stato promosso maresciallo e si era trasferito con la moglie Angela e i figlioli nella più grande città di Matelica, in provincia di Macerata. Un uscio di tutto rispetto per lo spirito inquieto e forgiato dalle letture di Salgari che troppo a lungo l’ossuto ragazzino aveva domato negli anni del collegio di Vasto: eccolo dunque alla Scuriatti, a guadagnarsi il primo pane di gioventù, lavorando dieci ore al giorno senza troppe feste e collezionando bravate – come quella fuga di venti giorni a Roma che mandò il padre su tutte le furie –, ed eccolo, nel 1923, entrare come garzone alla Conceria Fiore. Ed è lì che accade. L’azienda, la più sviluppata del matelicese, conta 150 operai, di lavoro ce n’è, prospettive anche. Un orizzonte che sembra cucito alla maniera vivace e ambiziosa degli adolescenti per il quale, volentieri, Mattei rinuncia alla passione per la pesca alle trote per rimboccarsi le maniche e imparare un mestiere.

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Operaio, aiutante chimico e infine, a soli 20 anni, direttore di laboratorio, un gruzzoletto che cresce insieme alle ore “perse” per l’impresa e che gli permette di aprire un negozietto di stoffe per la madre. Facile è immaginarne la gioia il giorno dell’inaugurazione, mentre in un’edicola qualunque, di lì a pochi passi, qualche giornale racconta un’altra inaugurazione, quella dell’Agip, l’Agenzia statale per il petrolio fondata da Benito Mussolini con lo scopo di cercare giacimenti petroliferi, acquisire e commercializzare petroli e derivati. Di ritorno dal servizio militare Mattei diventa il principale collaboratore di Giovanni Fiore, padrone della Conceria. Ma è il 1929 e chissà che non ci volesse anche questo: la crisi più nera che l’Italia ricordasse, la chiusura dell’azienda, la demolizione di un prestigio acquisito troppo in fretta perché la forza di Enrico Mattei cambiasse veramente la storia e il seme di quella “giustizia sociale”, che darà corpo alle sue imprese future, germogliasse pienamente. Lo ricorderà lui stesso: con una liquidazione «superiore a quella stabilita dalla legge», lettere di ringraziamento e presentazione e un biglietto per Milano, Mattei lascia gli affetti e le Marche per andare a giocarsi il futuro – e fare il futuro; ma questo, mentre viaggia “facendo a pugni” con le durissime parole rivoltegli dal padre, contrario alla partenza, e con il pensiero di dover ricominciare tutto daccapo, ancora non lo sapeva – nella grande metropoli del Nord. Dove ogni briciolo di caparbietà dell’ex ragazzino che verniciava i letti alla Scuriatti non verrà sprecato.

«Volontari della libertà e “ribelli per amore”, noi sentiamo profondamente il dovere d’impegnare ancora tutte le nostre forze perché questo nostro Risorgimento si completi e, nella tradizione della nostra millenaria civiltà, che è civiltà cristiana, si attui veramente “l’Italia degli italiani”» (Enrico Mattei, Il nostro Risorgimento, da Europa Libera, 25 aprile 1960)

Il resto si studia come premessa alle pubblicazioni dedicate all’uomo che sapeva guardare al futuro. Le buone referenze di Mattei gli valgono un posto come rappresentante per la Max Meyer, la sua voglia di riscatto una nomina a rappresentante esclusivo per l’Italia della Lowenthal. Nel 1931 riesce ad aprire col fratello e la sorella un piccolo laboratorio di oli emulsionanti per l’industria conciaria e tessile, un piccolo trampolino per quella Industria Chimica Lombarda che nel 1934 fonderà a Dergano, alla periferia nord della città, e che in capo a un anno porterà a Milano insieme a una ventina di operai. Sono anni di gioia, sotto il cielo plumbeo di Milano, per il self-made man venuto dalla provincia: Mattei torna a testa alta a Matelica e acquista, ammodernandone una parte per i genitori, il nobile Palazzetto Grossetti, conosce, s’innamora e sposa a Vienna la bellissima Greta Paulas, ballerina del balletto Schwartz, compra un appartamento per sé e i fratelli a piazza Carnaro, nello stesso stabile di quel Marcello Boldrini, docente di statistica alla Cattolica, che lo avrebbe avvicinato – lui, tesserato al partito – agli ambienti antifascisti e alla nascente Dc presentandogli esponenti del cattolicesimo progressista quali Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Ezio Vanoni, Giuseppe Spataro, Orio Giacchi, Enrico Falk.

E tenta nuove imprese, come ogni emigrato di successo, oltreconfine e nelle terre di gioventù, da un lato provando ad integrare l’attività dell’Industria Chimica Lombarda richiedendo al ministero delle Corporazioni una concessione per la pesca industriale in Eritrea – Mattei sperava così di ottenere dalla pesca di squali e delfini i grassi che servivano in azienda –, e al contempo acquistando terreni a Matelica per tentare la via della fattoria modello. Ma ancora una volta i piani di Mattei devono soccombere alla storia: è il 1940 e per l’Italia si levano forte i tamburi della Seconda Guerra Mondiale.

In quegli anni, ha scritto Boldrini, «vivemmo assieme, quasi isolati, mentre maturavano le sventure della patria (…). Quando giunse il momento, per non servire ai tedeschi, Mattei chiuse la sua fabbrica, sottrasse gli operai alle razzie, continuando a corrispondere loro i salari e li ebbe collaboratori clandestini nella difesa degli impianti tecnici e delle merci immagazzinate, con cui avrebbero ripreso insieme il lavoro alla fine della guerra». È in quegli anni che Mattei si diploma ragioniere, si iscrive all’Università Cattolica e, dopo il 25 luglio del 1943, si unisce insieme a Boldrini ai gruppi partigiani operanti sulle montagne circostanti Matelica: solo una parentesi in quello che sarebbe stato il vero ruolo di Mattei nella resistenza, le cui doti organizzative e il polso del leader non sfuggono alla Dc che in fretta lo nomina comandante del Corpo volontari per la libertà. A seguirlo, si dice fossero circa trentamila persone, raccolte tra Lombardia, Veneto, Toscana ed Emilia Romagna. È Mattei a far parte del Comando militare Alta Italia del Clnai per la Dc ed è Mattei a presenziare per le formazioni partigiane democristiane ai consigli nazionali. Catturato a Milano, nella sede clandestina della Dc di corso di Porta Vercellina, Mattei riesce a fuggire dal carcere di Como. Lo ritroviamo il 6 maggio 1945, quale membro delegato della Dc nel comando generale per l’Italia occupata del Clnai, sfilare a Milano accanto a Giovan Battista Stucchi, Ferruccio Parri, Raffaele Cadorna, Luigi Longo e Fermo Solari.

«Noi abbiamo fatto insieme, in quattro anni, il lavoro di venti: ma solo perché ognuno di voi, nel suo posto di lavoro, alto o basso, tecnico o amministrativo, ha rimboccato le maniche e lavorato con fantasia, con la volontà, con le braccia come venti persone tese in un unico sforzo, (…) Nelle nostre miniere si sono fatti e si fanno miracoli senza aspettare medaglie, senza sperare premi, e solo per quel senso di dovere che consiste nel servire lo Stato guadagnandosi senza barare al gioco il modesto salario che occorre per durare e poi per continuare a lavorare domani» (ricordando davanti ai lavoratori di Cortemaggiore il periodo pionieristico all’Agip, 1952)

Ed ecco, fato o casualità, il destino di Mattei incrociare quello dell’Agip e dei suoi lavoratori: uno dei tanti carrozzoni di stampo autarchico fascista che come tale, ridotto a distribuire prodotti petroliferi nemmeno italiani, andava liquidato e in fretta. Un incarico che Mattei disattende. Si dice che quella nomina, il 30 aprile 1945, a commissario straordinario dell’Agip per l’Alta Italia nemmeno gli interessasse. Si dice che con le carte e qualità dimostrate negli anni della resistenza avesse allora il cammino spianato in politica, dove venne eletto deputato nel 1948. Quello che è certo è che gli anni trascorsi dedicandosi alla causa del proprio paese han forgiato la persona e il modo di lasciar correre la mente di Mattei veloce, oltre il momento, a spiare l’orizzonte. E all’orizzonte Mattei sta vedendo la necessità di un’impresa energetica nazionale, in grado di assicurare quanto serve ai bisogni delle famiglie e allo sviluppo delle piccole e medie imprese a prezzi inferiori rispetto a quelli dei grandi oligopoli internazionali: la vede mentre, sprovvisto di alcuna formazione tecnica nel campo dell’industria petrolifera, ascolta e decide di dare fiducia agli esperti minerari dell’Agip e alle loro scoperte, la vede mentre ordina a quelli che sente già come i “suoi” uomini – gli “agippisti”, come Mattei promise che si sarebbero chiamati lui e quei molti «giovani, parecchi sono più giovani di me. Io stesso non sono ancora vecchio» che ripensando agli anni da pionieri all’Agip avrebbero potuto dire «c’ero anch’io» – di riprendere le perforazioni che porteranno alla scoperta di nuovi giacimenti di metano e soprattutto, il 13 giugno 1949, alla scoperta di petrolio a Cortemaggiore.

Un orizzonte che Mattei costruisce in politica quanto basta per arrivare il 10 febbraio 1953, alla legge istitutiva dell’Ente nazionale idrocarburi, da quello stesso anno motore propulsivo e innovativo di un paese pronto a trasformarsi in una moderna società industriale esplorando ogni ambito che fosse percepito come moderno e nuovo. Ed è così che ha inizio un’altra storia. Quella di un popolo che inizia a credere nell’indipendenza energetica. Un miracolo reso possibile dall’ascesa, rapidissima, di Eni che sta portando con sé nel mercato dell’energia milioni di italiani.

«Una ventina di anni fa ero un buon cacciatore e andavo a caccia nelle montagne vicino a Varzi»: l’aneddoto del gattino affamato ucciso dal bracco tedesco di Mattei, divenuto celebre grazie alle telecamere Rai che riproposero spesso l’intervista al presidente Eni, venne raccontato agli italiani il 12 aprile 1961, quando il marchio del cane a sei zampe “fedele amico dell’uomo a quattro ruote” costellava già da quasi un decennio città e autostrade: «Noi siamo stati  per i primi anni, come il gattino alle prese con i cani, tanti erano gli interessi coalizzati contro di noi – raccontava Mattei –. Il tentativo era o di soffocarci o mantenerci deboli. Pian piano, lavorando con tenacia, ci siamo rafforzati, e oggi il gruppo Eni è una grossa forza, una grande impresa, che può guardare al futuro con tranquillità e fronteggiare vittoriosamente la grande coalizione degli interessi petroliferi».

«Io proprio vorrei che gli uomini responsabili della cultura e dell’insegnamento ricordassero che noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso d’inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno la capacità della grande organizzazione industriale (…). Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo vostro domani. Ma per fare questo è necessario studiare, imparare, conoscere i problemi. E noi ci mettemmo con tanto impegno, e abbiamo creato scuole aziendali per ingegneri, per specialisti, per operai, per tutti e dappertutto. Con questo sforzo continuo ci siamo formati i nostri quadri» (Apertura dell’anno accademico della Scuola di studi superiori sugli idrocarburi, 4 dicembre 1961)

Ne aveva fatto una vetrina, cosicché tutti, guardandola, avessero compreso e creduto nel miracolo. Eni era venuta su così, sulle ambizioni, la fiducia e il sudore di uomini come lui, a cui però nonostante tutto, qualcosa era mancato. Lavorava, intuiva, vedeva nell’energia la chiave di sviluppo di quel paese per cui aveva fatto la guerra. Ma neppure il diploma e l’iscrizione alla Cattolica, caldeggiata da Boldrini – questo lo sapeva bene – gli avrebbero valso l’impresa. Il suo impegno con la modernità andava ben oltre la sua dimensione di individuo, e l’avrebbe portato a termine insieme ad ognuno dei suoi uomini. Nel 1953 aveva iniziato la costruzione dei laboratori di San Donato Milanese, fiore all’occhiello della ricerca scientifica in Italia, popolati di chimici, fisici, ingegneri, biologi, scelti tra i più giovani degli atenei italiani: l’università allora non era attrezzata per collaborare con la moderna industria petrolifera e l’Eni aveva bisogno di unità che portassero avanti gli studi e la ricerca sull’utilizzo degli idrocarburi.

Scuole di formazione come la Scuola per perforatori o la Scuola per tecnica direzionale, dove i dirigenti Eni si misuravano con le tecniche di management importate dall’America (il metodo Booz-Allen, che sostituiva il precedente sistema di gestione verticale del potere con una più efficiente organizzazione orizzontale basata sul sistema delle deleghe) perfezionarono il personale già assunto, mentre la Scuola di studi superiori sugli idrocarburi, una vera e propria business school per laureati che per la prima volta, nell’agguerrito mercato energetico, parla di concetti ancora poco conosciuti come il rispetto, l’internazionalità, il dialogo, assicurava al paese e all’azienda la formazione e selezione di nuove leve di specialisti provenienti dall’Italia e dai paesi produttori. Mattei osservava e motivava tutte queste cose col rispetto e il carisma di chi – nonostante le diverse lauree honoris causa che avrebbe ricevuto nel tempo – aveva iniziato questo sogno non sui banchi ma tra operai e garzoni, dove era facile camminare coi piedi per terra e desistere dal levare lo sguardo in alto, dove sembravano camminare uomini destinati a cose diverse dalle preoccupazioni di chi doveva mettere insieme il giorno con la sera.

“Sembravano”, perché per Mattei ogni singolo uomo dell’Eni e delle società affiliate era destinato a una grande impresa: a questo servivano le scuole di formazione – non già a guadagnarsi la riconoscenza dei dipendenti e ribadire una gerarchia – quanto a compensare i sacrifici che i dipendenti erano chiamati a sostenere insieme alle famiglie e a rafforzare la consapevolezza in merito al grande progetto di trasformazione che ognuno, a ciascun livello, rendeva possibile. «Ecco perché noi consideriamo la croce che ci è stata conferita come una conquista di nobiltà. Trattasi, ben s’intende, di una nobiltà di forma moderna, che non nasce dalle armi, ma dal lavoro – proclamava durante il festeggiamento per i neoeletti cavalieri del lavoro nel luglio 1953 –. Non lega ad un signore ma impone obblighi verso le masse dei lavoratori dei quali si ha la responsabilità. Personalmente desidero dichiarare che a tutti coloro che lavorano insieme con me attribuisco il merito dell’ambìto premio conferitomi».

Per questo nacquero i complessi residenziali di Metanopoli, le mense aziendali, le colonie marine di Cesenatico e soprattutto il villaggio di Borca di Cadore, alle pendici delle Dolomiti più belle, dove è facile esercitarsi a tenere lo sguardo levato fissando, operai, quadri e dirigenti, lo stesso orizzonte: è qui che Mattei fece costruire le stesse case vacanza per i suoi dipendenti e le famiglie, prive di alcuna distinzione basata sulle gerarchie aziendali, al centro delle quali sorgeva una chiesa con l’altare rivolto verso i fedeli prima ancora che il Concilio lo stabilisse come norma. «Nei nostri villaggi industriali – dirà al presidente Segni in visita al villaggio di Corte di Cadore nell’agosto del 1962 – noi abbiamo creato tutto quello che occorre alla vita civile: scuole, infermerie, parchi e giardini, chiese, impianti sportivi e di divertimento, e quella larga assistenza che fa sentire ogni lavoratore il permanente appoggio del complesso economico di cui fa parte. (…) Vogliamo vedere collocata su un piano di assoluta sicurezza la situazione professionale dei nostri lavoratori; intendiamo continuare ad esercitare quelle funzioni di stimolo, verso la competitività dei costi, il ribasso dei prezzi, la qualificazione dei prodotti, la capacità intellettuale e tecnica delle persone, che, se potranno portare un certo scompiglio nel campo trincerato dei più grossi interessi concorrenti, costituiscono però anche la giustificazione preminente di un’impresa industriale dello Stato».

«Abbiamo bisogno di giovani, di giovani che arrivino già preparati ai nostri problemi, che arrivino con una visione di quelle che sono le nostre necessità» (Discorso di inaugurazione del secondo anno accademico della Scuola di studi superiori sugli idrocarburi, 28 ottobre 1958)

Erano le “antenne” dell’Eni. Perché, in quell’orizzonte grande dell’impresa c’era pure qualcosa di inafferrabile a lui, uomo d’inizio Novecento intrappolato per oltre un trentennio nella provincia in cui il fascismo aveva confinato l’Italia isolandola dalla modernità. La sua lungimiranza stava anche in questo: nel sapersi servire, per guardare al futuro, di occhi e sguardi di una generazione proiettata all’orizzonte che i giovani acculturati sanno immaginare grande. Per questo li aveva voluti con sé, intellettuali, preparati e irriverenti: a questi Enrico Mattei aveva consegnato il compito e la libertà di indagare, scoprire, esprimere, nuove idee. Per loro nel 1957 aveva creato, all’interno del quartiere generale dell’Eni, un Servizio studi affidato a Giorgio Fuà il cui compito era captare dati, informazioni, idee che dovevano permettere all’impresa di comprendere meglio il mondo in cui si dovevano svolgere le attività in corso sia in Italia che a livello internazionale. Antenne che avrebbero contribuito a elaborare la sua visione del mondo e che l’avrebbero aiutato a mobilitare, con la forza della parola, tutte quelle forze che avrebbero contribuito al successo delle imprese di Eni. Una palestra in cui si allenano, nel corso degli anni, giovani come Sabino Cassese, Gino Giugni, Mario Pirani, Giorgio Ruffolo e Luigi Spaventa, giovani promesse rivelatisi talenti di prima classe, nel campo del giornalismo, della politica e dell’economia.

Mattei allora non era nuovo alle scommesse su giovani risorse, progetti e iniziative. Nel 1955 dà vita a un nuovo mensile aziendale, il Gatto Selvatico, che «è la traduzione letterale dell’inglese wildcat, parola che nel gergo dei seguaci di Drake serve ad indicare il “pozzo esplorativo”, ossia il trabocchetto che l’uomo, scavando nelle viscere della terra, tende al petrolio e agli altri idrocarburi»; ne affida la direzione al poeta Attilio Bertolucci che lo rende un mensile elegante e colto, arricchito di piccole storie originali (in gran parte rimaste inedite) firmate da Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, Mario Soldati, Leonardo Sciascia. Nel 1956 Mattei porta Eni nella proprietà del quotidiano Il Giorno sostenendo l’iniziativa di Cino del Duca e Gaetano Balducci per favorire la nascita di una voce indipendente dai grandi gruppi industriali che desse una “scossa” al panorama culturale italiano: e così fu, leggibile, moderno, a colori, ricco di inchieste di stampo anglosassone, il quotidiano dell’Eni si consacrò in fretta voce anticonformista della generazione protagonista del miracolo economico, formando giovani giornalisti di allora come Giorgio Bocca, Gianni Brera e Bernardo Valli.

Nel 1958 Mattei volle come consulente per l’ambito pubblicitario il poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli e alimentò una consistente produzione di documentari aziendali autorizzando un’opera che all’epoca suscitò aspre polemiche per il suo crudo realismo, L’Italia non è un paese povero (1960), affidato a uno dei documentaristi più famosi dell’epoca Joris Ivenis e fu una palestra per giovani collaboratori italiani come Paolo e Vittorio Taviani, Tinto Brass e Valentino Orsini.

«Qual è la sua principale ambizione nella vita?». «La mia principale ambizione è di dare all’Italia le fonti di energia di cui ha bisogno al prezzo più conveniente» (intervista all’emittente inglese Independent Television News Limited, 27 settembre 1962)

Stroncare con la forza dei fatti ogni possibile contestazione, reinvestire i guadagni in prodotto e occupazione, guardare ad Eni e alle numerose società connesse come società finalizzate alla produzione e allo sviluppo di attività. Perché a Mattei interessavano i cantieri sparsi nel mondo con il cane a sei zampe e non Piazza Affari. Consapevole che per raggiungere l’indipendenza energetica bisognasse superare i confini nazionali, nel 1954 il presidente di Eni stabilisce con l’Egitto di Nasser un accordo che rompe gli schemi contrattuali fino ad allora praticati nel settore petrolifero mondiale: l’intesa contempla la partecipazione diretta e la parità decisionale dei paesi produttori di greggio attraverso la costituzione di società miste. L’accordo, passato alla storia come Formula Mattei, viene riproposto tre anni più tardi in una convenzione siglata nel 1957 con lo scià di Persia Reza Pahlavi e la compagnia nazionale iraniana, e in Libia nel 1958. Gli uomini di Eni inviati all’estero dimostrano subito di aver compreso la filosofia del loro presidente, stabiliscono con i paesi produttori un rapporto paritario e amichevole, misurandosi con sfide quasi impossibili (come la ricerca di petrolio sui Monti Zagros, in Iran, a più di 2000 metri di altitudine), lavorano fianco a fianco con operai e tecnici locali, scambiando e acquisendo competenze preziose. Una politica che porta in fretta le “Sette Sorelle” – come Mattei ribattezzò le grandi compagnie petrolifere private – ad ostacolare l’ingresso di Eni in Medio Oriente e nell’Africa Settentrionale.

È allora che Mattei decide di ricorrere alla strada di Mosca: nel 1960 stipula un accordo di lungo periodo con l’Unione Sovietica per l’importazione annua di greggio ad un prezzo conveniente, accordo che gli varrà durissime opposizioni. Lo si accusa di essere un nemico del cartello, di sottrarre ad esso una quota interessante del mercato italiano e additare nuove imprese ai paesi consumatori. L’8 gennaio 1962, poco prima di decollare per il Marocco, il pilota del suo aereo scopre un cacciavite fissato con del nastro adesivo ai tubi interni in lamiera che col calore sarebbe caduto dentro il motore bloccandolo. Mattei non è nuovo a minacce e avvertimenti, già nel 1961 ha ricevuto quelle dell’Oas, il movimento dei generali francesi che in Algeria contrastava il movimento di indipendenza del Fronte di Liberazione Nazionale sostenuto da Mattei.

Il 27 ottobre 1962 il bireattore su cui viaggia Enrico Mattei di ritorno dal suo ultimo viaggio in Sicilia insieme al pilota Irnerio Bertuzzi, e al giornalista americano William Mc Hale precipita a Bascapè, nei pressi di Pavia. Solo poche ore prima Mattei aveva incontrato i lavoratori di Gagliano Castelferrato e chiamandoli più volte «amici, amici miei» aveva promesso loro «non assorbiremo settanta persone, ma tutti coloro che potrete darmi, tutti, e sarà necessario che tornino molti di quelli che sono andati all’estero perché a Gagliano abbiamo bisogno anche di loro». E anche quel giorno, per i tanti che lo ascoltavano si era fatto grande l’orizzonte sopra il presidente dell’Eni, anche quell’ultimo giorno l’ex ragazzino che verniciava i letti nella fabbrichetta Scuriatti aveva guardato dritto in faccia il futuro. Ma questa è ancora un’altra storia.

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