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Dove voleva arrivare il nostro eroe Di Pietro

Tutti i tentativi (vani) di ricostruire i presunti legami di Di Pietro con “gli americani”. E quel suo progetto passato inosservato di entrare «al Sis o al Sisde per ricominciare da dove ero rimasto» e «divulgare Mani pulite nel mondo»

Maurizio Tortorella
31/05/2017 - 2:00
Società
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di-pietro-ansa

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Diciamolo chiaramente: una prova, vera, non c’è. Però ogni tanto saltano fuori indizi stuzzicanti, segnali suggestivi: interviste e rivelazioni tardive, atti d’archivio, fotografie un po’ imbarazzanti, verbali d’interrogatorio dimenticati. Ma sono indizi e segnali, per l’appunto. Come se ci fosse qualcuno cui non riesce proprio ad andare giù l’impossibilità di dimostrare che Antonio Di Pietro, il pubblico ministero che creò l’ondata giudiziaria di Mani pulite, sia stato in qualche misura eterodiretto.

Bettino Craxi, per esempio, è morto il 19 gennaio 2000 nella ferma convinzione che il magistrato suo grande nemico avesse ricevuto l’aiuto di qualche manina o manona, e aveva sempre sospettato degli americani. Ad Hammamet l’ex segretario del Psi lasciò un appunto, scritto in chissà quale momento del suo esilio da latitante: «Non ho mai detto che Di Pietro è stato addestrato dalla Cia, né credo che questo sia mai avvenuto. Ciò che si può onestamente dire è che la sua azione nel corso delle sue inchieste e delle sue attività di presentazione internazionale è stata fortemente sostenuta dal governo americano».

Le presentazioni americane di Di Pietro, in effetti, sono state studiate anche più attentamente delle Lezioni americane di Italo Calvino. Eppure c’è un documento, forse il più inquietante fra tutti quelli prodotti nella saga di Tangentopoli, che risale al 19 luglio 1992, quinto mese di Mani pulite, ma è come un chiodo arrugginito a forma di punto interrogativo, ficcato da 25 anni nel legno tarlato della Prima Repubblica. È una “relazione di servizio”, sette pagine indirizzate al procuratore Francesco Saverio Borrelli dal suo sostituto Piercamillo Davigo. Il magistrato scrive che il giorno prima ha avuto un incontro, organizzato dall’avvocato Franco Sotgiu, con il costruttore Bruno De Mico, già coinvolto nell’inchiesta sulle cosiddette carceri d’oro. Quel giorno, per l’appunto, il pool di Mani pulite aveva fatto un arresto col botto: il costruttore Salvatore Ligresti. «De Mico riferiva di aver appreso da persone appartenenti a imprecisati “ambienti” statunitensi (…) che gli americani, irritati con Ligresti e con Craxi, avevano deciso di colpirli ed erano perciò disponibili a collaborare alle indagini in corso a Milano».

Nella relazione si legge che gli ambienti statunitensi vogliono allertare i pm milanesi, dalla cui parte si schierano con evidenza. A sentir loro, dopo l’arresto di Ligresti «non c’ era altra possibilità che l’annientamento di Ligresti o dei magistrati inquirenti». Per questo De Mico si è deciso a contattare Davigo, segnalandogli che «la collaborazione offerta non poteva essere rifiutata». Ed era necessario che «un magistrato, meglio se il dottor Di Pietro, rilasciasse un’intervista a Lowell Bergman, conduttore della trasmissione televisiva Sixty Minutes sulla rete televisiva statunitense Cbs». Quello sarebbe stato il segnale che l’offerta era stata accettata.

L’ipotesi della vendetta
Vero? Falso? De Mico è morto. Ma l’avvocato Sotgiu ha confermato più volte le parole scritte da Davigo. Nel 1995, quando la memoria dei fatti era ancora fresca, aveva dichiarato a verbale: «De Mico mi aveva riferito di ritenere che il presidente Ronald Reagan tutelasse per ragioni di politica internazionale l’onorevole Craxi e il suo entourage. C’erano però ambienti americani, che lui non mi precisò mai ma che io individuavo nella Cia, che al contrario sarebbero stati disponibili ad aiutare il pool di Mani pulite in quanto avevano lo stesso interesse dei magistrati a colpire Ligresti (…). La vera ragione era data dal fatto che (…) i socialisti avevano percepito grosse tangenti, che da Craxi sarebbero state consegnate a Ligresti per un reinvestimento in armi poi cedute ai somali e utilizzate contro gli americani». Anni dopo, Sotgiu ha confermato a Panorama che la Cia voleva vendicarsi di Ligresti e di Craxi, per esempio aiutando il pool a individuare dove si nascondesse il latitante Silvano Larini, che i giornali individuano come il «grande fuggiasco» nonché «cassiere occulto» del Psi.

Sta di fatto che a partire dall’autunno 1992, con un primo volo organizzato dalla United States Information Agency e dall’ambasciata americana a Roma, Antonio Di Pietro più volte si reca oltre oceano in quelli che saranno i suoi ultimi anni da magistrato, anche se mai risulta una sua intervista alla Cbs. Da allora, comunque, per un ventennio si continua a dibattere di imperscrutabili legami con la Cia e con misteriosi “ambienti americani”. Sempre a vuoto.

Le foto con Bruno Contrada
Poi, nel febbraio 2010, scoppia l’affaire delle fotografie con Bruno Contrada. Il Corriere della Sera pubblica l’immagine di un’allegra cena conviviale, una delle 12 scattate in una caserma romana dei carabinieri la sera del 15 dicembre 1992. Sofisticata coincidenza: nel primo pomeriggio di quel giorno l’Ansa ha ufficializzato uno degli snodi centrali e strategici nell’operazione Mani pulite e cioè che 24 ore prima è stato consegnato a Craxi l’avviso di garanzia firmato dal pool con l’accusa di concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Mentre la serata serve per consegnare a Di Pietro un premio che arriva dagli Stati Uniti: a portarlo, scrive il Corriere, è stato «Rocco Mario Modiati, a tutti presentato come il responsabile della cosiddetta Cia di Wall Street, la Kroll, la più grande organizzazione d’investigazione d’affari del mondo fondata nel ’72 da Jules Kroll, tremila dipendenti fissi, una quantità di collaboratori, corsia preferenziale per chi arriva da Cia e altri servizi, Mossad israeliano compreso».

E le foto? In bella vista, uno seduto accanto all’altro, ci sono Di Pietro e Bruno Contrada: che in quel momento è il numero tre del Sisde, il servizio segreto interno, ma nove giorni più tardi sarà arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa. Le foto emergono dal passato. Il Corriere scrive che è stato fatto di tutto per distruggerle. Di Pietro, comunque, bolla tutto come spazzatura: «Soltanto menti malate possono pensare che ho fatto quel che ho fatto per una spy story». La polemica sopravvive per qualche giorno. Poi torna a inabissarsi.

Riemerge nel 2012. Il 28 e il 30 agosto la Stampa intervista prima Reginald Bartholomew, ambasciatore statunitense a Roma nell’era di Tangentopoli, e poi Peter Semler, console statunitense a Milano nei primissimi anni Novanta. Soprattutto il secondo è un vero scoop: «Io incontrai Di Pietro nel suo ufficio e mi disse su cosa stava lavorando, prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica», racconta Semler. «Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre: mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Craxi e la Dc». Semler aggiunge che è stato proprio lui «a suggerire all’ambasciata a Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l’inizio delle indagini». Alla domanda cruciale: chi incontrò Di Pietro? Semler risponde evasivo: «Gli fecero vedere molta gente, a Washington e New York».

«Un archivio portentoso»
Quel 30 agosto 2012 la Stampa pone qualche domanda anche all’ex pm: Di Pietro conferma gli incontri con Semler, ma nega di avergli anticipato i suoi programmi politico-giudiziari. Nell’intervista, però, accade un fatto strano. A un certo punto, per dimostrare che l’ex console confonde date e conversazioni, l’ex pm mostra al giornalista, Mattia Feltri, un report inviato da Semler a Peter Secchia, il predecessore di Bartholomew, il 25 febbraio 1992, otto giorni dopo l’arresto di Chiesa che dà il via a Tangentopoli. Feltri, da buon cronista, annota in una parentesi che in quel documento, presumibilmente riservato, «un esponente della Rete, forse Nando Dalla Chiesa, parla all’ex ambasciatore dell’imminente fine del pentapartito». Feltri aggiunge, sorpreso, che «l’archivio di Di Pietro è ancora portentoso». Peccato soltanto che non gli chieda come diavolo abbia fatto ad avere quel report spedito da Roma a Washington, e da allora presumibilmente seppellito in un archivio del dipartimento di Stato americano.

Collegamenti anomali e mezze verità. C’è un altro documento fondamentale, in questa storia. È un lungo interrogatorio datato 2 luglio 1995. A subirlo stavolta è Di Pietro, che si è dimesso dalla magistratura sette mesi prima, il 6 dicembre 1994, e in quel momento è indagato a Brescia in quello che verrà definito il “Dipietrogate”: alla base dell’accusa, poi negata in tutti i giudizi, sono le presunte, indebite pressioni che l’ex pm avrebbe esercitato su una serie di indagati milanesi di Mani pulite allo scopo di ottenerne vantaggi economici per sé, parenti e amici. Il magistrato titolare dell’inchiesta bresciana è Fabio Salamone.

Le fasi due e tre
Davanti a lui Di Pietro si presenta con una grande valigia zeppa di documenti. Ed esplode in quello che Salamone, due anni dopo estromesso bruscamente dall’inchiesta e oggi procuratore a Brescia, ricorda come un monologo durato 16 ore, nel quale l’indagato parlò di sé e del groviglio di ambizioni e di paure che lo circondava. Nell’interrogatorio Di Pietro prospetta anche un piano che riletto oggi pare decisamente ambiguo, a cavallo tra la politica e i servizi segreti. Al capitolo 12 del verbale, intitolato “Il progetto strategico per il futuro”, l’indagato detta per sommi capi la sua futuribile tabella di marcia: «Completare le inchieste sulla Guardia di finanza; raccogliere le prove fondamentali sul gruppo Berlusconi, lasciando il proseguimento dibattimentale ai colleghi (del pool Mani pulite, ndr) per non trovarsi bloccato per altri due anni; completare il processo Enimont; andare fuori ruolo».

Ed ecco la parte più interessante, là dove Di Pietro prospetta i passi ancora successivi: «Programmare l’ingresso al Sis (il servizio dei controllori dell’amministrazione fiscale, ndr) o al Sisde per ricominciare da dove ero rimasto». La formula è più che sorprendente, e non è mai stata compiutamente analizzata. Però la frase «per ricominciare da dove ero rimasto», piazzata subito dopo la sigla «Sisde», legittima l’ipotesi di scenari che ben si collegano alla fotografia con Di Pietro seduto accanto a Contrada. Anche perché nel verbale l’ex pm insiste con i piani, e guarda sempre più in alto: «Il progetto Mani pulite 2, con il ricomponimento del pool sotto il Sis; l’anagrafe tributaria; la direzione del Sisde». Infine: «Il progetto Mani pulite 3, con la ricostruzione (dell’Italia, ndr), il ricambio della classe dirigente, nuove leggi e nuovi agglomerati politici; la divulgazione di Mani pulite nel mondo». Nientemeno. E tutto da solo? 

@mautortorella

Foto Ansa

Tags: antonio di pietrogiornalismomani pulitetangentopoli
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