L’emergenza coronavirus ha messo alla corda la posizione dell’Europa, evidenziandone tutti i limiti e la spasmodica propensione alla cura della finanza e di logiche lontane dai cittadini e dalle comunità, afflitte già ora o nei prossimi giorni da ben altre urgenze. Detto ciò, non possiamo esimerci del comparare quello che paesi come Russia, Cina o Usa stanno facendo per aiutare l’Italia in questa emergenza rispetto alla magra figura offerta dalle istituzioni europee.
Certo è che, se vogliamo fare questa comparazione, non possiamo farla senza applicare una posizione altrettanto critica nei confronti dei tre giganti. Usa, Cina e Russia sono paesi con una spiccata proiezione strategica.
Gli Usa sono il nostro alleato privilegiato, quello che in cambio di una politica pienamente asservita, ci ha aiutato, protetto e talvolta sostenuto economicamente. Un paese a cui siamo convenzionalmente e tradizionalmente legati grazie anche a quel 6% di italoamericani inseriti nel tessuto sociale del paese a stelle e strisce, generalmente in posizioni di medio alte. Un paese che, con buona pace nella nostra politica, ci ha sempre lasciato piena libertà di azione economica al fuori dalle loro aree di interesse, ma che non mai accettato e non accetta una nostra piena indipendenza diplomatica: è interessate vedere le giravolte che fanno i nostri primi ministri per compiacere le amministrazioni Usa in un periodo in cui le stesse si scontrano con le omologhe tedesche e francesi.
Ma gli Stati Uniti, abili manager, sanno che questi sacrifici meritano dei premi. Sanno che non è utile stressare oltre misura l’economia di uno stato amico fino al dissanguamento. Sanno che è più utile uno stato in forza e loro alleato, piuttosto che uno degradato all’inedia.
È interessante vedere come gli Usa, nel tempo, hanno permesso all’Italia di condividere quello che, in geopolitica, è uno dei cardini del potere: la supremazia tecnologica. Generalmente coinvolgono l’Italia in progetti di altissimo profilo, come quello dell’F35. Relativamente a contenuti industriali classificati, hanno in parte condiviso alcune informazioni e tecnologie ad un livello significativamente superiore a quello concesso ad altri partner, consentendo al nostro paese di godere implicitamente di preziose ricadute tecnologiche, industriali ed economiche. Ci permettono, in partenariato con le aziende di loro fiducia, di partecipare a programmi miliardari per sostituire alcune navi della US Navy (programma LCS). Ci concedono l’utilizzo di asset tecnologici in grado di poter armare velivoli senza pilota, privilegio finora concesso alla sola Raf inglese. Ci hanno permesso di acquistare a prezzi di saldo una delle loro aziende automobilistiche più importati, la Chrysler, interrompendo il sodalizio che fino ad allora avevano avuto con Daimler, guarda caso, tedesca.
Ovvero l’esatto contrario di quello che hanno fatto e stanno facendo i consorzi europei a guida franco tedesca. Alcuni esempi su tutti. Eads, il gigante dell’aviazione europea non è partecipato da Soc. Leonardo, la nostra azienda di riferimento nel campo aeronautico e militare, né negli anni passati è di fatto stato permesso all’Italia di entrare nell’azionariato. È stata rigettata da parte di francesi e tedeschi la richiesta italiana di partecipare allo sviluppo del carro da battaglia che stanno definendo in questi anni. Hanno solo laconicamente assicurato la vendita. Nonostante la tradizione che ha portato negli ultimi cinquant’anni allo sviluppo di aerei militari che sono stati e che sono la spina dorsale delle maggiori aviazioni del vecchio continente, come Panavia Tornado o Eurofighter Typhoon, ancora una volta, recentemente, il binomio franco tedesco ha iniziato a sviluppare il futuro caccia da combattimenti shealt escludendo deliberatamente l’Italia, tant’è che abbiamo aderito al programma Tempest britannico. Questo a dimostrazione del fatto che l’idea dei francesi e dei tedeschi è che la supremazia tecnologica e quindi le relative ricadute economiche degli anni a venire rimangano ad esclusivo appannaggio delle loro aziende.
Abbiamo poi la Cina che, come già detto, si è offerta di aiutarci in tutto e per tutto. Lo ha fatto per prima, quasi fosse in competizione per farsi conoscere ed ingraziarsi il popolo italiano. La Cina, un paese tanto desiderato quanto vituperato. È noto che il concetto di diritti umani è quantomeno alterato a Pechino. Sui mercati sono aggressivi e competono attraverso un mercato del lavoro privo di tutele. Nel mondo, le loro aziende colmano ogni ambito di mercato lasciato libero da altri, fino a scalzare chi già opera attraverso una concorrenza sleale e a volte fornendo prodotti al di sotto degli standard richiesti. Hanno una forte identità nazionale, uno dei fondi sovrani più importati del mondo che opera con molta spregiudicatezza e l’idea che il lavoro si condivida solamente con soggetti a loro allineati. Non sono propensi a lasciare nei paesi in cui operano ricadute occupazionali rilevanti. Non è infrequente vedere, nei grandi progetti infrastrutturali, aziende cinesi che, nonostante il basso costo della manodopera locale, fanno arrivare dalla madre patria tutti i lavoratori che gli servono. Una tipica situazione che si presenta in Nord Africa e nella fascia sub sahariana. Ma è palese l’enorme capacità industriale ed è palese la costante, impellente ricerca di mercati dove piazzare i prodotti delle loro industrie. Mercati che vanno conquistati, passo passo, con investimenti, alleanze e guerre commerciali.
Lo strumento principale che sintetizza questa dottrina economica, è la cosiddetta “nuova via della seta”, iniziata nel 2013, dopo la crisi economica, è intesa come uno strumento concorrenziale per proseguire in maniera efficace nell’espansione e penetrazione dei mercati. È un progetto sostenuto, essenzialmente, grazie alla Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (di cui anche l’Italia è tra i paesi fondatori) e che si contrappone più o meno palesemente al Fmi, alla Banca mondiale e all’Asian Development Bank, quali enti che sono sotto il controllo strategico delle potenza economiche occidentali in primis degli Usa e della Ue. Un progetto che prevede il trasporto delle merci dalla Cina attraverso tre corridoi principali, di cui due (quello a nord e quello al centro) in gran parte in territorio russo o sotto l’influenza della Russia, alias la “nuova via della seta” che esiste nella sua forma più completa grazie anche alla Russia. Un sistema che solo l’anno passato ha consentito alle aziende cinesi di firmare contratti per un valore di 128 miliardi di dollari destinati essenzialmente a progetti di infrastrutture pesanti e complesse su larga scala, in decine di nazioni. Un progetto che coinvolge l’Italia quale porta sud dell’Europa.
Infine la Russia, che già abbiamo detto essere attore di rilievo della “nuova via della seta”, ha confini commerciali più netti, ma sfere di influenza più ampie, legate alla produzione e al trasporto di energia, all’industria ad alto contenuto tecnologico, al controllo di zone geostrategiche di influenza, onere e privilegio esclusivo che non condivide con nessuno, nemmeno con il partner cinese. La Russia, a dispetto di quanto si possa pienamente percepire in occidente, è viva e vegeta nonostante anni di embargo. Lo è grazie alla tenacia del suo popolo, mai dominato da potenza straniera, grazie al suo petrolio, grazie alla sua industria in continuo sviluppo sin dai primi anni 2000, grazie alla cooperazione tra le ex repubbliche sovietiche, sue alleate, e a diversi paesi asiatici, che di fatto mitigano, se non assorbono completamente, gli effetti dell’embargo, assicurando una costante ed ampia comunità commerciale. Una comunità mercantile quasi sconosciuta agli occhi di chi vive in occidente.
Una realtà che si deve confrontare con gli Usa, i quali le hanno scatenato contro una vera e propria guerra commerciale, imponendole sanzioni. Una guerra che ha avuto anche ripercussioni indirette, non immediatamente percepibili. Per esempio, la morte del generale iraniano Soleimani, sacrificato per far capire agli avversari che non si sarebbero tollerati altri passi in Medio Oriente. Un’area di interesse strategico multilaterale, dove la Russia sta difendendo non solo una posizione geopolitica, ma anche il tentativo di aprire, insieme alla Cina, il corridoio centrale della Via della Seta, quello che, attraversando gli ex stati sovietici dell’Asia centrale, l’Iran, l’Iraq e la Siria dovrebbe portare merci ed energia fino alla sponda est del Mediterraneo.
La Russia è quindi un paese che prospera ad oriente, ma che continua ad avere l’esigenza e la pretesa di un ruolo da protagonista anche ad occidente. Ed è in questo che, ancora una volta, c’entra l’Italia.
Da sempre, in Europa, i partner commerciale più importanti di Mosca sono stati la Germania ed il nostro paese. Non è quindi un segreto che la Russia conti anche sull’Italia per dar voce al blocco che si sta delineando per mitigare, se non ritirare, le sanzioni che l’attanagliano dal 2015. Sanzioni imposte, ripetiamo dagli Usa, e da certa parte della Ue, in risposta alla contrapposizione tra Russia e Ucraina che ha portato all’annessione formale a Mosca della Crimea e a quella informale delle autoproclamate Repubbliche del Lugansk e del Donetsk. Sanzioni mirate non tanto a punire l’orso russo, quanto ad arginare la sua spinta, permettendo contemporaneamente la penetrazione commerciale dell’Ucraina da parte delle aziende occidentali, in un mercato fino ad allora in mano ad aziende russe. Sanzioni, sempre invise alle aziende italiane e sempre velatamente osteggiate dai rappresentati politici italiani. Sanzioni che ora iniziano ad essere scomode anche in Germania, dove i presidenti socialdemocratici dei nuovi Länder orientali e il presidente Cdu della Sassonia vanno chiedendone la completa abolizione. Sanzioni che la Germania, a questo punto, si può permettere di allentare anche in virtù del fatto che ha consolidato la propria posizione commerciale in Ucraina, grazie all’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio e di associazione Ucraina-Unione Europea, al processo di attuazione dell’accordo di Minsk del 2014 e a quello del vertice di Parigi (formato Normandia) dello scorso dicembre. Quindi la funzione dell’Italia per la Russia può essere determinante. Infatti in Consiglio d’Europa, nel giugno dello scorso anno, la delegazione italiana ha votato in maniera praticamente compatta per la riammissione della Russia all’assemblea parlamentare.
Insomma tre attori, Usa, Cina e Russia in cerca di appoggi ed alleati per consolidare le loro posizioni.
Ed è qui che torna, o meglio dovrebbe tornare, prepotentemente il ruolo dell’Italia.
Quello che ha sempre avuto fino a quando non è entrata nell’euro. Un ruolo sempre ricercato da queste potenze, perché siamo una nazione sviluppata, dotata di dedizione al lavoro e di sufficienti conoscenze che le permettono di competere anche nelle imprese infrastrutturali più complesse, poco litigiosa, incline all’accordo piuttosto che allo scontro, capace di abilità diplomatiche di cucitura impensabili ad altre nazioni, doti utilissime in ambiti dove attori più importati hanno bisogno di una spalla per completare strategie di ampio respiro.
Infine un paese, il nostro, che si estende naturalmente verso la sponda est e si affaccia su quella sud del Mediterraneo. Un paese che si protende naturalmente verso quello che oggi è il fulcro della contrapposizione tra superpotenze, il Medio Oriente, inteso nella sua interezza dall’Egitto agli estremi confini dell’Iran, dove l’Italia ha giocato sempre un ruolo di cerniera tra mondo arabo e diplomazie occidentali. Non va dimenticata la nostra capacità relazionale con tutti gli attori della regione che, da un lato, ci hanno permesso di uscire finora indenni dalle dinamiche del terrorismo di matrice religiosa e, dall’altro, di consolidare posizioni commerciali con tutti i paesi della regione.
Un paese, il nostro che con l’Eni ha trovato il giacimento gas offshore più grande del Mediterraneo orientale, quello di Zohr. Una condizione di vantaggio iniziale che, in virtù della nostra debolezza economica, militare e diplomatica, non abbiamo potuto sfruttare come avremmo potuto. Lo scorso anno la Turchia ha, senza mezzi termini, respinto in acque internazionali il transito della piattaforma Saipem 12000, destinata ad operare nelle acque di Cipro in una zona di esplorazione già assegnata all’Italia, mentre la Francia, tre settimane fa, ha organizzato manovre militari con la sua flotta al largo dell’isola proprio per rimarcare il suo interesse nella regione.
E quest’ultimo episodio fa il pari con la questione libica, storica area di interesse italiano prevalente, dove l’improvvida azione del paese transalpino è andata a scardinare equilibri politici ed economici estremamente delicati e allo stesso tempo preziosi per la nostra economia. Il tutto solo per rientrare forzosamente in una partita economica e commerciale a cui l’Italia aveva partecipato, ed ottenuto, la sua parte, non certo attraverso dissennate operazioni militari, ma piuttosto attraverso intensi e copiosi investimenti pubblici e privati e un lavoro diplomatico durato anni. Una improvvida operazione che ha generato tutto quanto è sotto i nostri occhi, dalla guerra civile al problema migratorio. Una operazione, quella francese, giocata innanzitutto sopra la pelle del sistema Italia.
Il nostro paese, grazie al suo agire discreto, ha, sin dai tempi di Mattei, voluto condividere piuttosto che prevaricare i partner commercial (Eni e Agip sono cresciute nel mondo grazie a questa filosofia). Questa è la nostra forza, che ci rende interessanti agli occhi di alleati più potenti, che potrebbero beneficiare degli ambiti in cui eccelliamo.
In tempi migliori, quando l’Italia era libera di poter fare la propria politica commerciale, monetaria ed economica è stata la quinta potenza mondiale, nonostante il suo debito. Ora è chiaramente un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. Ma ancora un partner evidentemente desiderato dalle tre potenze maggiori: Putin che risponde in 24 ore alla richiesta di aiuto di Conte, Trump che il 14 marzo twitta “The United States Loves Italy!”, l’ambasciatore cinese Li Junhua che replica il 15 marzo scrivendo: «Sono convinto che quando avremo vinto sul virus, il popolo italiano e quello cinese saranno ancora più vicini e uniti, e la cooperazione bilaterale sarà ancora più prospera. Speriamo che quel giorno arrivi presto»
Quindi, tutto quanto esposto, per chiedersi se valga ancora la pena esser vassalli dei taluni poteri europei, indubbiamente ostili, oppure, nell’interesse nazionale, valga la pena recuperare una parte della nostra autonomia politica ed economica per smarcarci da chi mira a spartirsi le vesti di un paese agonizzante.
Questo non per abiurare una posizione culturale europeista, ma poiché pare essersi perso lo spirito originario di Adenauer, Schuman e De Gasperi e poiché appare sempre più evidente la deriva dell’Unione Europea come di una organizzazione sovranazionale a trazione franco-tedesca, è nostro dovere bilanciare tale atteggiamento cogliendo le opportunità che ancora possiamo avere per risollevarci.
(*) L’autore di questo articolo è ingegnere, PhD, esperto nella realizzazione di impianti in opere infrastrutturali complesse, incardinato in aziende di rilievo partecipa a progetti nazionali ed internazionali in veste di direttore tecnico, PM o responsabile di uffici tecnici.
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