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Centrafrica, lo spettacolo del perdono all’«Inferno»

Non c'è discorso che possa sanare le ferite di un paese in guerra da quasi tre anni. Il valore enorme della presenza fisica di papa Francesco

Leone Grotti
01/12/2015 - 3:00
Esteri
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Anticipiamo un articolo del prossimo numero del settimanale Tempi (clicca qui per abbonarti), in edicola da giovedì 3 dicembre.

«Inferno dantesco», «Apocalisse», «orgia di spargimenti di sangue», «genocidio». Non ci sono metafore o paragoni che non siano stati usati per il Centrafrica e nessuno è sembrato davvero adeguato a descrivere la guerra civile che dilania uno dei paesi più poveri del mondo da oltre due anni. Dopo aver conquistato il potere con un colpo di Stato nel marzo 2013, la coalizione islamica Seleka, formata da mercenari provenienti da Ciad e Sudan, e guidata da Michel Djotodia, si è accanita per dieci lunghi mesi contro la parte cristiana della popolazione con torture, saccheggi, ruberie, usurpazioni, omicidi ed esecuzioni sommarie.

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Migliaia di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case e a rifugiarsi nelle chiese e nelle parrocchie, trasformate nel giro di poche ore in giganteschi campi profughi. Quando la situazione è diventata insostenibile, nel 2014 si è scatenata la vendetta degli anti-balaka, letteralmente “antidoto”, un gruppo di milizie animiste, con rare infiltrazioni cristiane, che ha preso di mira tanto i combattenti Seleka, quanto la popolazione musulmana. In un clima che ha favorito la divisione dei 4,6 milioni di abitanti lungo linee settarie, non c’era spazio per le sfumature e le distinzioni, così tutti i musulmani, a ragione o a torto, sono stati accusati di essere complici degli usurpatori. Le stragi si sono moltiplicate, l’atrocità dei crimini è aumentata e per le strade i musulmani venivano presi e massacrati a colpi di machete: molti bambini sono stati uccisi davanti ai padri e viceversa, mentre giovanissimi anti-balaka, sepolti sotto decine e decine di amuleti “protettori”, i cosiddetti gris-gris, si sono fatti riprendere a mangiare parti del corpo delle loro vittime. Ben presto le chiese e le parrocchie, già piene di cristiani, sono state affollate anche da musulmani, in una delle realizzazioni più drammatiche di quell’«ecumenismo del sangue» di cui tante volte papa Francesco ha parlato a riguardo delle confessioni cristiane perseguitate in Medio Oriente.

La reazione esausta della popolazione, insieme all’intervento delle forze francesi prima, e dell’Onu poi, ha fermato le manifestazioni più terribili di una spirale di violenza che però ancora non si è fermata, complice anche l’inefficienza della comunità internazionale. Ad oggi, già 5 mila persone sono state uccise, più di un milione su quattro sono sfollate, fuori o dentro il Centrafrica, 1,5 milioni soffrono la fame, il 72 per cento delle pochissime strutture sanitarie pubbliche o private è stato danneggiato o distrutto, per non parlare delle tante case, chiese e moschee bruciate o rase al suolo.

È questo il paese che papa Francesco ha scelto per inaugurare in anticipo il Giubileo della Misericordia, che comincerà l’8 dicembre. È questo il paese che il Papa ha scelto per aprire la prima Porta santa, di legno e vetro, nella cattedrale della capitale Bangui, con la suggestiva formula: «Aprite le porte di giustizia». Giustizia, santità, misericordia: parole che in Centrafrica tutta la popolazione – cristiani, musulmani e animisti – ha bisogno di vedere incarnate, perché non c’è discorso che possa sanare ferite profonde e ancora lontane dal rimarginarsi. È questo, prima e al di là di ogni dialogo su amicizia e pace, il valore enorme del viaggio di Francesco in Africa, cominciato il 25 novembre in Kenya e culminato il 30 novembre nella Repubblica Centrafricana dopo il passaggio in Uganda.

La violenza del Demonio
Per settimane la visita nel paese ancora in guerra è stata a forte rischio: solo negli ultimi due mesi, nella capitale Bangui, sono state bruciate chiese, sgozzati cristiani, migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare di nuovo le proprie case a causa di attacchi condotti da gruppi armati provenienti dal Km5, l’enclave islamica della capitale visitata anche da papa Bergoglio. Nonostante la missione dell’Onu (Minusca) sia operativa con 6 mila soldati dallo scorso settembre, si è rivelata in larga parte inefficace: le fazioni in guerra non sono state disarmate, con grande rammarico e delusione della popolazione, la strada più importante del paese è ancora in mano a bande criminali, che la rendono impercorribile, e l’instabilità è altissima. Nonostante la lettura edulcorata di molti giornali, uno dei problemi alla vigilia della visita è stata anche l’ostilità di molti musulmani, che non volevano che il Papa visitasse la moschea.

Ma il Pontefice insiste da tempo per fare questo viaggio. Nel 2014, ricevendo in udienza a Roma una missionaria proveniente dal paese africano, le disse: «Lo sai che ho una predilezione per il Centrafrica? Vedrai che riesco a venire». Sull’aereo, all’inizio del suo viaggio, a chi gli chiedeva se avesse paura di attentati, ha risposto: «L’unica cosa che mi preoccupa sono le zanzare». E a metà del viaggio, quando la domanda gli è stata rinnovata, ha ribadito: «Voglio andare in Centrafrica. Se non volete portarmi, datemi un paracadute». È con la sua persona, innanzitutto, che il Papa ha voluto portare «a nome di Gesù il conforto della consolazione e della speranza», perché non c’è periferia più lontana, popolazione più disperata, guerra più dimenticata oggi del Centrafrica, forse insieme a quella del Sud Sudan. E la gente l’ha capito. Jocaste, signora che lavora all’aeroporto, ha sintetizzato tutto in una frase al Corriere della Sera: «È arrivato il Signore, per noi è un giorno indimenticabile. Con l’arrivo del Papa in Centrafrica cambierà tutto».

Al centro della sua predicazione il Papa ha posto la parola «perdono». Per sanare le ferite «dell’ingiustizia e dell’odio che il Demonio scatena», ha detto, è necessario «perdonare e amare i nostri nemici», testimoniando così quella «misericordia e quel perdono di Dio di cui noi per primi abbiamo fatto esperienza» e di cui il Papa ha voluto farsi segno tangibile. Per padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano in Centrafrica dal 1992, la visita è stata importantissima: «È stato un evento eccezionale», dichiara a Tempi dopo aver assistito alla Messa allo stadio che ha chiuso la visita. «Grazie a Dio è andato tutto bene e non ci sono state violenze e grazie anche al Papa che ha avuto il coraggio di venire». Francesco «ha detto giustamente che non c’è perdono senza giustizia e che la giustizia deve avere il sapore dell’amore. Questo è molto bello. Così come qui si mette il peperoncino in tutti i cibi per renderli saporiti, così anche la giustizia deve essere innervata dall’amore».

La gente, continua il missionario, ha capito che «si trattava di un’occasione storica. Allo stadio c’erano 30 mila persone per l’ultima Messa e tantissimi sono rimasti fuori. Ciò che mi ha stupito di più della visita è proprio quello che ho visto allo stadio: c’era un solo cancello per entrare e una calca impressionante, la sicurezza era traballante, eppure non c’è stato neanche un litigio né un problema, mentre qui da tre anni tutte le questioni si risolvono con le armi. Poi dalle tribune si è levato un boato quando è entrato l’imam, che da anni insieme all’arcivescovo di Bangui e a un pastore protestante gira il paese per favorire la riconciliazione. Questo è stato davvero un segnale incoraggiante». Anche alcune parole semplici del Papa hanno fatto breccia tra la gente: «A volte, ci ha detto, siamo così scoraggiati che non abbiamo più speranza e invece Dio è più forte di tutto. Per cui bisogna girare pagina e ripartire».

L’esempio di Bozoum
Padre Gazzera sa quanto questo sia difficile. Ma non impossibile. L’anno scorso, a novembre, ha promosso nella sua parrocchia di Bozoum un offertorio speciale, per raccogliere alimenti e denaro per «circa 300 musulmani, donne e bambini» in difficoltà. «Ho lanciato questa idea ma non ho insistito perché tanti cristiani avevano perso i familiari a causa dei musulmani e non volevo offenderli. Invece i parrocchiani mi hanno stupito: hanno donato manioca, arachidi, vari prodotti e soprattutto circa 70 euro. Mentre solitamente non se ne raccolgono più di 20». La cosa bella è che «erano fieri di farlo e di aiutare i musulmani. Questo significa che il desiderio di riconciliazione è presente nella gente ed è importante perché certe cose non le potrai mai imporre: bisogna dare a queste persone la possibilità e dei modi per soddisfare questo desiderio». Se da un lato dunque bisogna cercare di eliminare le cause che portano alla violenza – «ci sono questioni mai risolte che bisogna affrontare, lo Stato in 50 anni non ha mai costruito una scuola, la corruzione in politica è la normalità» – dall’altro «bisogna aiutare i centrafricani a tirare fuori quello che hanno dentro». Padre Gazzera, davanti alla generosità dei suoi cristiani, ammette di «non sapere come sia stato possibile. Ma io ho portato tutti i giorni da mangiare e bere ai musulmani di Bozoum. Forse l’esempio è servito a qualcosa. E poi c’è lo Spirito Santo che opera».

@LeoneGrotti

Foto Porta santa Ansa/Ap
Foto Messa Ansa

Tags: aurelio gazzerabanguiGiubileo della MisericordiaPapa Francescoporta santa
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