Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Cara Guia, la lettura dei giornali nelle ultime due settimane mi ha molto depresso. Non so se hai seguito la vicenda che ha destato più scandalo di attentati e vacanze di sindaci e scissioni del Pd: la trasmissione televisiva – confesso: fino a quel momento a me ignota – che ha mandato in onda una lista di motivi per preferire una donna dell’Est, intesa non come di Vicenza ma come romena o giù di lì. Tra il motivi c’era il fatto che non sono mai sciatte, non vogliono comandare in casa, e altre innocue caratteristiche del genere. Apriti cielo: tutti i capi della Rai, tutte le femministe, tutte le presidenti della Camera si sono sperticate a condannare questi inaccettabili stereotipi.
Ora, cara Guia, lascia che ti parli di me. Sono un professore, a tempo perso scrivo canzoni. Anni fa ne ho scritta una che parlava della donna che vorrei – quella ideale, che purtroppo non somiglia per niente a mia moglie. Tra le altre cose, i versi dicevano «Abbiamo un mare di figli da pulirgli il culo, che la piantasse un po’ d’andarsene in giro» (evidente offesa a donne con ambizioni che travalichino la maternità); e «Prendila te quella col cervello, che s’innamori di te quella che fa carriera, quella col pisello» (evidente attacco alla sensibilità gender fluid); per non parlare dell’anatema per le donne fatte non a forma di mia badante: «Stronza come un uomo, sola come un uomo».
Orbene, Guia, non è successo niente. Ma sai niente niente? Nessuna petizione per impedirmi di toccare mai più una chitarra. Nessuna interrogazione parlamentare sulla mia pericolosità sociale. Nessun appello di femministe e dirigenti del servizio pubblico acciocché in futuro mi fosse vietato non solo di cantare ma soprattutto di insegnare nei licei. Niente di niente.
Esigo delle spiegazioni: non è normale che io venga ignorato così e, per molto meno, una trasmissione divenga un caso nazionale. Perché a quella lì hanno chiuso il programma e a me non hanno chiuso i concerti? È mai possibile che solo il mio, di sessismo, sia socialmente accettabile? Allora uno cosa fa le canzoni provocatorie a fare, se poi moglie e figlia continuano a essere parti integranti delle liste di sinistra milanesi, se non diventa un pària con tutta la sua famiglia, se non può fare neanche un po’ il martire del politicamente corretto? Dimmi: ho sbagliato tempistica, o la canzone era troppo accomodante?
Roberto V.
Caro Roberto, innanzitutto lasciami dire che tutte noi, dell’est e dell’ovest, abbiamo almeno una volta sospirato ai nostri amanti «Tu queste cose non me le dici mai» sentendo il verso «Voglio una donna, mi basta che non legga Freud»: non sai che sollievo sarebbe una società in cui gli uomini non ci costringessero a fingerci colte; in cui non lo pretendessero da noi che vorremmo solo tirar la sfoglia, e invece ci tocca spolverare i Meridiani per farli sembrare frequentemente consultati.
La risposta è sì, a tutt’e due le domande. Hai sbagliato momento: venticinque anni fa, quando uscì la tua canzone, l’indignazione non aveva superato il calcio tra gli sport nazionali, e al risveglio non agguantavamo ancora il cellulare sperando che su Facebook ci fosse una notizia che ci permettesse di fare le offese. Hai sbagliato anche l’impaginazione: se «quella che fa carriera, quella col pisello» fosse stata una grafica colorata da far girare con un solo clic sui social network, ce ne saremmo comodamente scandalizzate nella pausa caffè; ma mica pretenderai che ascoltiamo 4 minuti di canzone?
E sì, il brano era anche troppo mite: quello era un secolo in cui non chiedevamo l’ergastolo per Vasco quando diceva «è andata a casa con il negro, la troia», né la lapidazione per Lucio Dalla che «poca gente che li guarda, c’è una checca che fa il tifo». Era un secolo in cui sapevamo che erano solo canzonette, tv, romanzi – mica programmi di governo. Prova a dirglielo adesso, a tua moglie, che deve piantarla d’andarsene in giro, e vedrai se non ti trovi tutte le scrittrici con un libro da promuovere a inveirti sotto casa.