Caro Marcello, ho letto che sei prossimo ad andare ad allenare in Cina, quindi ho deciso di scriverti per riflettere con te su questa scelta. Premetto una cosa: non è che tu mi stia molto simpatico. D’altronde, devi sapere, tifo Fiorentina, e quindi il mio sangue viola è incompatibile con chi, come te, ha legato il suo nome ai tanti successi dei gobbi. Però hai commosso anche me ai Mondiali di Germania 2006: quella vittoria, così imprevedibile e sofferta, è stata frutto anche del tuo genio, capace di dare motivazioni da leoni a una squadra che, indolenzita dai lividi di Calciopoli, poteva andare incontro a una Caporetto del pallone nostrano, mentre ha fatto della Germania una Vittorio Veneto. Che ricordi! T’ho perdonato anche le defaillance sudafricane, perché il pari di Materazzi con la Francia, il rigore di Totti all’Australia, il gol di Grosso contro la Germania sono emozioni che mi le porterò dietro per tutta la vita.
Permettimi però una domanda: perché andare ad allenare in un campionato di scarsissima caratura, come quello cinese? M’intristisce sempre quando vedo gli ex-grandi campioni del calcio europeo, gambe affaticate e tasche grondanti di quattrini, tramontare in stadi arabi, americani, o, ultima moda, indiani… Però tutto sommato lo accetto ancora: a fine carriera uno prova a monetizzare al meglio quel poco di classe che gli è rimasta, per andare in pensione in maniera dignitosa. Ma tu non mi sembri in questa condizione: è vero, in Sudafrica ti sei preso tutte le responsabilità di un flop colossale, ma se ti fossi reso disponibile a tornare ad allenare, tanti club avrebbero fatto a botte per ingaggiarti. Il tuo nome è un pezzo della storia del calcio italiano, e nessuno dubita sulle tue abilità letterarie per scrivere ancora altri capitoli.
E poi, perché proprio la Cina? Siamo qui che contestiamo agli orientali alcune responsabilità dell’attuale crisi finanziaria, e tu ti schieri con loro? Hanno invaso il nostro mercato in ogni settore, rubandoci qualsiasi tipo di inventiva. Qualsiasi prodotto, marchio, mobile, oggetto, vestito o accessorio che rendeva l’italianità uno stampo unico al mondo, qualcosa di cui essere fieri alla faccia delle risate dei tedeschi, o peggio ancora dei cugini francesi, c’è stato portato via. Resiste solo una cosa: il pallone. Nonostante la crisi del nostro calcio, nonostante in Europa le nostre squadre arrancano come neanche Margherita Hack alla visita oculistica per il rinnovo della patente, nonostante l’1-1 con la Nuova Zelanda in Sudafrica, nonostante tutto questo il nostro calcio rimane unico al mondo. Abbiamo partite di un’intensità e di un agonismo che in Spagna se lo sognano (ma avete in mente le difficoltà di un grande club su campi di “piccole” squadre come Catania, Atalanta, Lecce?), abbiamo allenatori nostrani – bravi quasi come te – alla guida di squadre ai piani alti dei loro campionati (Ancelotti, Spalletti, Mancini, perfino il debuttante Di Matteo…), abbiamo un amore per il pallone unico, in grado di portarci al seguito delle realtà calcistiche provinciali dei nostri paesi, e al tempo stesso capace di farci amare persino il tricolore e l’inno di Mameli, quando gioca la Nazionale. Tutto questo è la sola cosa che resiste, la sola cosa che gli orientali non sono riusciti a copiarci, la sola cosa non etichettabile come “made in China”. Pensaci bene, quindi, caro Marcello prima di accettare questa offerta. Ho già visto l’Italia perdere con Corea, Nuova Zelanda e Egitto. Non farmi tremare al pensiero di incontrare, un domani, la nazionale cinese.
Twitter: @LeleMichela