Canti e letture per testimoniare un cuore più grande della guerra
Martedì 15 dicembre scorso a Roma si è svolto un evento dal titolo “Se non vince la guerra – letture, canti e immagini di un Natale al fronte”, promosso dal Centro Culturale Roma. Il centenario della Prima Guerra Mondiale, che stiamo ricordando in questi ultimi due anni (l’anno scorso per lo scoppio e quest’anno per l’entrata in guerra dell’Italia), è stato l’occasione per approfondire storie di uomini e di popoli che hanno affrontato la guerra, e scoprire come esse siano profondamente attuali.
La Grande Guerra viene considerata uno spartiacque della storia recente. Hobsbawn ha parlato del Novecento come del “Secolo breve”, facendo risalire il suo inizio proprio al 1914. Fu un evento così importante per diverse ragioni: le proporzioni del conflitto, lo sviluppo degli strumenti bellici (si pensi alle mitragliette automatiche o all’aviazione con i suoi bombardamenti) e, come conseguenza, l’enorme numero dei morti.
Quando cominciarono le ostilità pressoché tutti gli schieramenti si aspettavano fossero di breve durata, settimane o al massimo mesi. Invece finì per trasformarsi ben presto in una guerra di posizione e logoramento, in cui la grande protagonista divenne la trincea, un luogo in cui i soldati erano esposti alle intemperie, senza possibilità di lavarsi o di avere il cambio anche per giorni e giorni.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]L’affermarsi già dalla fine dell’Ottocento di influenti correnti di pensiero, innanzitutto il nazionalismo, portò a sviluppare un’importante macchina della propaganda, mediante la quale i soldati erano addestrati al massacro e indottrinati a pensare che il nemico non fosse un uomo. Alcuni soldati andavano al fronte pieni di entusiasmo e slancio vitalistico verso una guerra che pensavano dovesse essere “purificatrice”. Si resero ben presto conto che la realtà da affrontare era ben diversa. Molti altri, più prosaicamente, partirono per senso del dovere verso la propria patria, a combattere una guerra che non era la loro, come Monicelli ha mirabilmente mostrato nel suo capolavoro La Grande Guerra.
A proposito dell’Italia, ci furono grandi dibattiti sull’opportunità di entrare in guerra o meno: i neutralisti erano numericamente in maggioranza, ma il fronte interventista era più pugnace e alla fine la spuntò. Al fronte si ritrovarono soldati provenienti un po’ da ogni parte del Paese, che non si intendevano nemmeno benissimo a causa dei dialetti.
Tuttavia, la Grande Guerra fu esperienza dolorosa ma anche importante per un’Italia che sino ad allora ancora non si era veramente unita, e che dopo (con fascismo, partigiani e Seconda Guerra Mondiale) sarebbe tornata a dividersi al suo interno. Mentre la storica resistenza sul Piave, preceduta da Caporetto (spesso non vi è grande vittoria se non conseguente ad una sconfitta bruciante), rimane impressa nella memoria storica del Belpaese come l’unica vera “epica italiana”.
Fu una tregua spontanea, non decisa dall’alto, anzi avversata dalla maggior parte degli ufficiali che ne vennero a conoscenza. Cominciò in modo semplice, con dei canti popolari (spesso conosciuti dagli opposti fronti) e il desiderio di festeggiare il Natale che era più forte di farsi la guerra. Un canto dopo l’altro, gli schieramenti uscirono dalle trincee e si incontrarono. I soldati fraternizzarono col nemico, seppellirono i morti, celebrarono messa, si scambiarono oggetti e indirizzi e giocarono a pallone.
Tutte le lettere parlano dello stupore dei protagonisti per un fatto così eccezionale: «Che straordinario effetto ha sul mondo il Natale! Pace e buona volontà tra gli uomini, si può capire in tempo di pace, ma tra uomini che per cinque mesi non hanno fatto altro che spararsi e uccidersi è una cosa incredibile. Se non avessi visto con i miei occhi l’effetto del Natale su queste due linee di trincee, non ci avrei mai creduto». Alcuni soldati affermano addirittura che quello è stato il più bel giorno della loro vita, e che non avrebbero voluto passare il Natale da nessun’altra parte se non in trincea.
I canti ascoltati, invece, fanno parte più da vicino della storia italiana. Appartengono alla grande tradizione degli alpini e sono stati eseguiti dal coro “La Biele Stele”, composto da giovani universitari romani. A prima vista sembrerebbe una stranezza pensare al canto in un contesto di guerra, eppure diverse testimonianze ci riportano quanto esso sorgesse sovente e in maniera del tutto spontanea.
Per i soldati esposti continuamente ai pericoli della morte, il canto rappresentava un modo per esprimere il proprio desiderio di vita, di bene, di pace e di bellezza. Non a caso, i testi sono racconti semplici delle esperienze di vita e in particolare della vita al fronte.
“Monte Canino”, ad esempio, racconta in modo struggente di quell’ultimo avamposto del confine italo-austriaco in cui i due eserciti si fronteggiarono in maniera cruenta riportando ingenti perdite: «Non più coperte, lenzuola, cuscini / non più l’ebbrezza dei dolci tuoi baci». Spesso tali canti esprimono una nostalgia vera, commovente eppure priva di qualsiasi recriminazione o lamento.
Come “Il Testamento del Capitano”, che narra della devozione dei soldati verso il proprio comandante, e di quest’ultimo che, prima di morire, chiama i suoi soldati per fare testamento: «O con le scarpe o senza scarpe / i miei alpini li voglio qua».
Per finire con altre aspre battaglie, cantate in “Bombardano Cortina”, e soprattutto con il bellissimo canto friulano “Ai preat”, in cui una fanciulla prega “La Biele Stele” (la prima stella, Venere, con cui la tradizione friulana identificava la Madonna) e “tutti i Santi del Paradiso” affinché il Signore possa fermare la guerra e far ritornare a casa il proprio amato. Con la splendida invocazione del ritornello “Fa’ palese il mio Destin”, rendi chiaro un Destino misterioso eppure buono, a cui si può dare del “Tu”.
Dove risiede l’attualità del racconto di questi momenti della Grande Guerra? Oggi ci troviamo a vivere in una situazione di crisi, non solo economica ma anche sociale, politica e si potrebbe quasi dire più in generale umana. Con gli attacchi terroristici e gli scenari di violenza in diverse parti del pianeta, stiamo vivendo quella che papa Francesco ha definito una “Terza Guerra Mondiale a pezzi”. Di fronte a questa situazione, l’Europa appare spesso impacciata e incapace di dare una risposta unitaria.
La notte di Natale del 1914 soldati europei di opposti schieramenti poterono deporre le armi e andare incontro al nemico innanzitutto perché condividevano una cultura comune, fatta di canti, inni, festività, tradizioni. Questa cultura comune esprimeva a ben guardare un cuore comune, “un cuore più grande della guerra”, come titola una mostra sui canti alpini presentata all’ultimo Meeting di Rimini.
Ciò che in Occidente ai giorni nostri sembra essere piuttosto confuso, lo si può vedere tuttavia in tante testimonianze che arrivano lì dove la guerra imperversa crudele. Come il racconto della storia di padre Ibrahim Alsabagh, che conclude l’incontro, il quale apre le porte del proprio convento e offre a tutti, di qualsiasi religione, l’acqua del proprio pozzo. E le persone rimangono stupite perché negli altri pozzi in Siria la gente si ammazza per prendere l’acqua, mentre nel convento di padre Alsabagh in maniera ordinata viene offerta a tutti, cristiani e musulmani. Un esempio vivente di un cuore in cui non vince la guerra.
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1 commento
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Da qualche tempo conoscevo questa incredibile storia. Commovente!
Se si pensa che ora le persone che l’hanno vissuta potrebbero essere in Cielo insieme davanti a Diopadre!, ancor più commovente.
Io avrei fermato il tempo a quel giorno lì di tanti anni fa…e non solo io, oppure voi; sicuramente anche Dio.