Belgio, generazione divina. Omerica presentazione di una squadra di talenti (Esagero? Esagero!)

Di Pino Suriano
17 Giugno 2014
La potenza di Lukaku, la folle chioma di Fellaini, la classe sontuosa di Hazard. Giovani e belli. E come tutti i giovani e belli, sempre tanto attesi, ai Mondiali deluderanno

Venticinque anni di niente. Poi, d’improvviso, lo scoppio. Tanti talenti, tutti nello stesso quinquennio, tutti nello stesso, piccolissimo, fazzoletto di terra. Nessuna scienza potrà spiegare del tutto l’esplosione, imperiosa e collettiva, dei baby e meno baby talenti calcistici del Belgio. Resta la letteratura, cioè la più bella, cioè quella mitologica.

E davvero in Belgio deve esserci stata una donna di prepotente bellezza (più o meno negli anni in cui Vincenzino Scifo e i suoi stupivano il mondo a Mexico ‘86) se il dio del pallone, dall’alto del suo monte sacro, se ne innamorò perdutamente. E deve essere stato un amore potente e sconfinato, se il seme del dio, trattenuto per anni, sempre centellinato e diffuso con apparente equità nelle diverse terre del mondo (a parte alcune strane e più copiose effusioni in certe terre del Sud America) si sprigionò d’un colpo, appena un quinquennio (i tempi del divino, si sa, non sono quelli dell’umano), tutto nello stesso, piccolissimo, fazzoletto di terra (si perdoni la ripetizione, è verso formulare).

È fatto così il dio del pallone. Per anni resta apatico, lascia fare agli uomini, alle loro programmazioni (ne hanno fatte anche in Belgio), alla loro illusione di progettare e controllare sempre tutto. Altre volte, invece, fa da sé, o forse semplicemente non si contiene.

Schizzi di quella magnifica esplosione si sarebbero visti anni dopo anche in Italia. Per esempio nello scorso dicembre. Qualcuno ha per caso visto, nel corso del match Napoli-Sampdoria 2-0, l’uomo che domato in rete come fosse la cosa più facile del mondo un pallone complesso e poi ha pennellato una splendida punizione? Era il giorno dell’Epifania, la “manifestazione” del divino, appunto. O sempre lui, sei giorni dopo a Verona, toccare la palla con una dolcezza unica e metterla lì, proprio lì, “dovenonsiarrivamai”?

Ecco, bene, quello è solo uno dei tanti, e neppure tra i più forti. Dries Mertens, per dire, tra quelli che indossano la maglia dei Diavoli Rossi del Ct Mark Wilmots, è tra quelli che passano parecchio tempo in panchina, poco volentieri ma spesso. I fuoriclasse, da quelle parti, sono altri.

E a proposito di fuoriclasse, e a proposito di panchine, il nostro canto si posi su quella del Chelsea. Lì si potranno ammirare, a turno, le sagome corporee di eroi del calibro di Samuel Eto’o, Fernando Torres e (fino a poco tempo fa) Juan Manuel Mata. Uno solo non si trova mai da quelle parti, infatti è sempre in campo. Il nome è mitologico da sé: Eden. Deve essere stato quello, senza ombra di dubbio, il momento culmine dell’amor divino. Era il 1991, 7 gennaio.

Qualche anno un cronista di Marca intervistò Zinedine Zidane e gli chiese, tra le altre cose, un giudizio sui giovani più interessanti del panorama calcistico. Era pronto a scrivere sul taccuino quello già abusato di Bojan Krkic, ma si dovette stupire quando sentì il nome semisconosciuto di ragazzino in forza al Lille. «Hazard es el crack del futuro», disse Zidane. Lui trasalì. «Quando mi elogiò per la prima volta – ebbe a dire tempo dopo – stavo davanti alla tv, mi è venuta una vampata di caldo».

Solo falsa umiltà. E infatti, quando un giorno i cronisti della italiani della Gazzetta gli chiesero di Lionel Messi rispose: «Oggi è il migliore di tutti. Però ai miei occhi gli manca quel pizzico di eleganza estetica che avevano Zidane o Platini». Praticamente un guanto di sfida. Allora sembrò folle e ardimentoso, oggi un po’ meno. Il più forte del gruppo di cui all’oggetto del canto è lui. Oltre che del dribbling e del gol, è genio dell’assist (Zidane non sceglie a caso i suoi pupilli). Il giocatore belga più pagato della storia (40 milioni per il trasferimento al Chelsea nell’estate 2012).

Pochissimi istanti prima, appena cinque anni (i tempi del divino, lo abbiamo detto, non sono quelli dell’umano) c’era stato il momento di massima virilità divina. Deve essere venuto fuori in quell’istante il seme che poi, cresciuto, è diventato Vincent Kompany, ora al Manchester City. Luogo che, per definizione, è porto di mare e di acquisti miliardari mai stabili. In questa terra di flutti e scosse solo pochissime rocce: è lui la più solida e inossidabile.

Si resta a Manchester, ma sull’altra sponda. Vincenzino Scifo faceva tendenza con la sua famosa brillantina? Impallidirebbe di fronte a Marouane Fellaini. I suoi capelli sono qualcosa di più, qualcosa che i giornali inglesi hanno trovato modo di definire con una parola inglese che non abbiamo più bisogno di tradurre: cult. Ok, ma la sostanza? Tutta in un numero che parla due volte, 33: tanti sono i gol segnati con la maglia dell’Everton, tanti i milioni di sterline per il suo trasferimento allo United. Sì, ma questi questi sono numeri, non sostanza”.

Keep calm, c’è anche quella in casa Manchester, ma porta un altro nome: Adnan Januzaj. Nel mito greco si direbbe un predestinato. E come altrimenti definire uno che non fa l’attaccante, che esordisce in Premier League a diciotto anni con la sua squadra sotto di un gol, prende la palla e segna il primo, poi, anziché esultare come qualunque essere umano per il gol all’esordio, senza un accenno di sorriso si mette a correre verso il centrocampo per andare alla ricerca del vantaggio e dopo un po’ (oddio) lo trova per davvero con uno stupendo sinistro al volo?

Ok, non brilla per generosità (a Manchester ha fatto notizia la sua uscita con una giovane ragazza alla quale ha fatto pagare anche il parcheggio) ma altre doti abbondano: “tecnica, equilibrio e accelerazione”. Notate le virgolette? Il certificato, si dà il caso, è firmato Alex Ferguson.

Alle fasi finali dell’esplosione divina si fa risalire anche la nascita di Romelu Lukaku. Qui non c’è bisogno della nostra mitologia, l’hanno già fatta altri. Su twitter ci si può divertire a leggere il profilo @lukakufacts, che fa del calciatore, una sorta di Chuck Norris onnipotente del calcio.

Cose del genere: “Lukaku non è il nuovo Drogba, è Drogba il vecchio Lukaku”.

O ancora: “Rome Lukaku, una volta, calciò una roccia. Ora quella roccia è conosciuta con il nome di Luna”.

Fantasie iperboliche, ma fondate, delle cose pazze pazzesche che questo ragazzo ha fatto vedere in Premier nelle prime giornate. Se l’Everton ha veleggiato in alta classifica nel campionato più bello è per tanti motivi, uno su tutti: lui. Palla alta e ci pensa lui. In certi momenti (esagero? esagero!) la percezione è quella del ragazzo cresciuto di quinta elementare che se la vede con quelli piccolini di prima. Il paragone (esagero esagero? esagero esagero!) è con Ibra e Drogba.

Il 13 maggio del 2009 i dirigenti dell’Anderlecht contano i minuti che mancano alla mezzanotte. Devono aspettare quell’ora perché quel ragazzino abbia l’età per firmare il primo contratto. Vale già 2,5 milioni di euro. Il 24 maggio esordisce in Jupiler Pro League, il 24 maggio è il giocatore più giovane ad averci segnato. In Champions League, pochi mesi dopo, ne fa due all’Ajax. A soli 18 anni il Chelsea lo acquista per 22 milioni di euro, da lì in prestito gratuito al West Bromwich, non per farsi le ossa, che sono già belle e formate. Sembra che siano pronti per le grandi squadre, i suoi gol: al Liverpool ne fa uno all’andata e uno al ritorno. Col Manchester il mister decide di schierarlo solo per il secondo tempo: gli basta per farne tre.

Un giro in Spagna: schizzi interessanti anche lì. Del resto oggi cosa c’è di più figo, “ottimista e di sinistra” dell’Atletico Madrid “povero contro i ricchi” del Cholo Simeome? E cosa fa più tendenza, oggi, di un bel giocatore belga della grande sfornata divina? Diego Simeone, per la verità, a disposizione ne ha due. Uno è ottimo difensore, Alderweild, scuola Ajax, buon uomo, nulla più. L’altro, invece, è un crack. Si chiama Thibaut Courtois e somiglia a un bambino. Salvo poi notate che quel bambino, in piedi, consta di 199 cm tutti di plasticità. Se l’Atletico è arrivato dove è arrivato, è anche grazie a lui.

Sarà una bella sfida per la Nazionale, perché di portieri, nella sfornata divina, non ne è nato solo uno. In forza al Liverpool c’è Simon Mignolet. È più grande e più esperto di lui, ma meno talentuoso e forse più distratto.

Restiamo in Premier, a Londra, sempre sull’epica, sugli eroi. L’eroe moderno per eccellenza, SuperMan, al White Hart Lane, casa del Tottenham, diventa Super Jan. Al secolo è Jan Vertonghen, 190 cm, una ventina di possibili ruoli e trasformazioni (da qui l’eponimo): centrocampista, terzino sinistro, terzino destro, centrale e chi più ne ha più ne metta. Cresciuto all’Ajax, prima garanzia, cresciuto da mister Frank de Boer, seconda.

Sempre in casa Spurs ci sarebbe da ricordarsi, eccome, di Moussà Dembele, l’uomo che eliminò l’Italia alle Olimpiadi di Pechino 2008, ma ci sarà l’oblio. Lui, punto di forza della Nazionale, in quegli anni non era in Belgio. Naturalizzato in seguito, non c’entra con la “nevicata” divina. L’oblio dell’aedo dovrà cadere anche Christian Benteke, il suo sinistro, la sua forza e i suoi dribbling (per questo si può vedere un bel video antologia che impazza su youtube). In Belgio sono arrivati più tardi: serviranno alla Nazionale, ma non al mito.

Non era altrove Kevin De Bruyne, in forza al Wolfsburg. Da quelle parti sembrerebbe un perfetto indigeno tedesco, ma non lo è. Anche lui, invece, è nato in Belgio. E anche lui, come Hazard, è passato per i Blues, ma senza lasciare la traccia profondissima di Eden. Tra le grandi promesse, forse, è quella che per ora sembra aver deluso di più.

Axel Witsel. Il quotidiano belga Het laatste Nieuws propone ogni anno l’elenco delle personalità belga più spregevoli dell’anno. In testa alla classifica, nel 2009, c’era il pluriomicida Kim de Gelder, autore del celebre massacro all’asilo nido di Dendermonde. Subito dopo c’era Axel Witsel, autore di uno degli interventi killer più famosi degli ultimi anni, costato tibia e perone al polacco Marcin Wasilewski dell’Anderlecht, e costato a lui (nonostante le sincere scuse) minacce di morte che lo hanno costretto a girare per mesi con una scorta di Polizia.

I portoghesi del Benfica prima, i russi dello Zenit poi, hanno pensato anche ad altro: talento e versatilità. È uno di quelli per cui va bene la parola jolly: mediano, esterno offensivo di fascia destra e di trequarti. Il paragone è di quello che potrebbero stendere: Patrick Vieira. Il che significa, in soldoni, fisicità straripante, assieme (la cosa è rarissima) a classe e visione. L’illustre Patrick, però, ha dimostrato queste doti in Campionati difficili come la Serie A e la Premier (vincendo in entrambi casi). Lui, per ora, ha scelto le sfide facili.

Ultimo giro, ma veloce, nell’italietta del calcio che (non) conta (più). In Italia, nelle vacanze natalizie, non si è parlato che di un nome. In effetti non abbiamo un Campionato (già ucciso dalla Juve), non molti Campionissimi (Higuain, Pirlo, Balotelli e poi, diciamocelo, quasi il niente), nulla di strano se per mesi ha tenuto banco, come fosse una vera notizia, la telenovela del passaggio di Radja Nainggolan alla Roma. Il certificato: «Nainggolan […] è completo, fa le due fasi con estrema naturalezza, ha un buon tiro, un lancio lungo incredibile, soprattutto ha una forza di gambe nei primi tre metri pazzesca, non sbaglia tanti passaggi, recupera una quantità incredibile di palloni». In più, è cattolicissimo e parla cinque lingue.

Solo l’ultima frase non è di Pierpaolo Bisoli, autore del “certificato” virgolettato. Arrivato al Cagliari, e trovatolo fuori rosa, il rude Pierpaolo si precipitò come un leone dal presidente Cellino per chiederlo di non venderlo. Fu accontentato: Nainggolan rimase al Cagliari per altri anni, Cellino ne guadagnò tre volte di più; il povero Bisoli, invece, fu mandato via poco tempo dopo.

Sì, fanno tutti un po’ tendenza, ma la Nazionale? La Nazionale? Leggere i dati, disarmanti, del girone di qualificazione ai Mondiali: 26 punti su 30 disponibili; 8 vittorie, 2 pareggi, sconfitte giammai; gol fatti 18, subiti solo 4; seconda classificata, la Croazia, staccata di 9 punti. Sì le qualificazioni, ma i Mondiali? Il mitico Belgio di Vincenzo Scifo con la brillantina si fermò alle semifinali di Messico 1986. Loro, forse, neanche lì.

Ci sono i miti che nascono dopo le grandi vittorie, ci sono quelli che nascono prima. Questi ultimi, giovani belli e spesso tanto attesi, alla fine non vincono mai. Una volta quelli belli e forti nacquero, tutti insieme e con la maglia arancione, in Olanda. Erano i più forti, e infatti non vinsero. Tempo prima era accaduto in Ungheria, e infatti non vinsero.

Ma il dio del pallone non piange certo per queste cose. Lui guarda le partite dall’alto: i Mondiali, quelli estivi o invernali, le coppe alzate, Blatter e Platini sono cose piccole per piccoli uomini. Lui, quando può, se li gode e basta, questi magnifici frutti del suo seme. E chissà dove sarà, adesso, a soffrir d’amore e di voglia per chissà chi, in chissà quale, piccolissimo, fazzoletto di terra.

@pinosuriano

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