Andrea Lo Cicero. Intervista al capitano che guidò l’Italrugby ai Mondiali 2007

Di Redazione
08 Settembre 2011
Alla vigilia del mondiale 2007 il pilone della nazionale italiana di rugby racconta le speranze degli Azzurri. E uno sport per uomini veri fatto di eroismo e sacrificio. Ripubblichiamo l'intervista che uscì sul numero numero 36 di Tempi, 6 settembre 2007

Di lui la gente conosce l’iconografia classica: eroico sul campo, pressoché indifferente al dolore, pronto al sacrificio e testimonial dell’ortopedia italiana per la quantità di fratture e lussazioni collezionate in carriera. Cinquantacinque punti in testa, di cui ventuno solo a un orecchio. Sei dita rotte. Quattro costole. Un gomito. Spalle lussate a volontà e una clavicola fratturata. Distorsioni varie alle gambe. Un collaterale rotto e una sublussazione del ginocchio. Uscite dal campo per infortunio: nessuna. Ma Andrea Lo Cicero, pilone della nazionale italiana di rugby e dal prossimo campionato anche del Racing Parigi, è soprattutto un ragazzo intelligente, uno che si guarda attorno, che conosce il valore della partecipazione e che soprattutto non si arrende all’indifferenza.
Per questo il Barone (nome con cui Lo Cicero è conosciuto sui campi e fuori) è l’uomo a cui bisogna rivolgere quella che era e rimane una provocazione, pur se basata su un fondo di verità: gli italiani, per indole e vocazione alla scorciatoia, non saranno mai un popolo di veri rugbisti. «Io dico una cosa, non si può vivere sempre e soltanto sull’emergenza. Io sono di Catania e penso continuamente alla vedova dell’ispettore Filippo Raciti, ucciso a poco più di trent’anni per una partita di calcio. È un paese normale questo? No, non lo è nella misura in cui quando ci scappa il morto, come purtroppo è accaduto, si sprecano fiumi di parole e di inchiostro ma alla fine non si fa nulla per eliminare la vera causa, il disagio che porta a queste tragedie assurde. Parlo di educazione, di senso civico, della necessità per tutti noi di impegnarci, di migliorare, di fare di più. Il periodo delle scuse deve finire, anzi è già finito. I ragazzi, i giovani, hanno bisogno di valori positivi e di esempi da seguire, hanno bisogno di noi. Di tutti noi. Sarà banale quanto dico ma questo è il nostro paese, sta a noi fare qualcosa per raddrizzarlo».

È ancora possibile raddrizzarlo?
L’Italia sta dilapidando il suo immenso patrimonio storico e culturale: non stiamo più producendo, siamo fermi. A livello mondiale ci ridono dietro, per tutti siamo il paese delle poltrone: una volta che qualcuno ha ottenuto ciò che vuole chissenefrega degli altri. E poi si sta davvero esagerando con la politica delle porte aperte con gli extracomunitari, siamo al collasso, stanno rovinando il paese e la polizia non riesce più a controllare la situazione. Stiamo diventando la patria dell’illegalità e la cosa che mi fa più arrabbiare è il buonismo imperante in base al quale se fai o dici qualcosa verso un extracomunitario sei automaticamente un razzista. Mentre se non fai o dici niente sei, scusate il termine, uno stronzo. Non è possibile.

Torniamo al rugby: domani, 7 settembre, inizia la coppa del mondo. Con che spirito affrontate questo impegno?
Lo spirito è buono perché abbiamo lavorato bene e quando si lavora bene i risultati arrivano. Ma non faccio previsioni, e non per scaramanzia: a questi livelli si parte tutti alla pari. Certo ci sono i favoriti, come gli All Blacks o la Francia che sta esprimendo un ottimo gioco, ma anche noi abbiamo dimostrato di poter far bene, l’ultima amichevole in Irlanda del Nord (persa dagli Azzurri 23 a 20) lo ha dimostrato.

Una cosa è certa: il mondiale farà entrare ancora di più il rugby nel cuore degli italiani dopo la fiammata di entusiasmo dell’ultimo VI Nazioni, quando l’Italia è riuscita a vincere ben due partite, di cui addirittura una in trasferta contro la Scozia.
Penso che il rugby abbia già superato, se non per numero di tesserati (che comunque sono cresciuti enormemente) certamente per interesse, molti sport ritenuti di prima fascia. È un affetto tangibile quello che sentiamo quando scendiamo in campo, quindi bisogna consentire alla gente di vedere più partite possibili. Non dico che bisogna fare come per il calcio, sette giorni su sette, ma ammetto che segretamente continuo a sperare che La7 possa trasmettere in chiaro le partite dell’Italia al mondiale. Trovo giusto, anzi sacrosanto, che gli italiani, tutti gli italiani, possano vedere la loro nazionale. 

Però sembra che l’affetto di cui parla sia limitato alla sola nazionale e non ai club.
Sono sincero: prevedevo una cosa del genere. Anzi, mi pare quasi normale. Perciò non accuso nessuno, tanto meno la stampa. La prima responsabilità è proprio delle società, che devono fare un surplus di sforzo per coinvolgere la gente sul campionato come avviene durante il VI Nazioni o per la Heineken Cup (la Champions League del rugby, ndr). Molti giocatori della nazionale giocano in grandi club all’estero, in Inghilterra e in Francia, ma l’entusiasmo per le loro gesta nel Gloucester o nello Stade Français non è paragonabile a quello che li accompagna quando indossano la maglia azzurra. Eppure sono gli stessi giocatori. Questa mancanza di interesse deve farci riflettere.

E la stampa? Davvero il mondo dell’informazione non ha alcuna responsabilità a riguardo? Pur senza mettere in discussione la legge del mercato (si pubblica ciò che la gente legge, quindi il calcio avrà sempre il suo palcoscenico privilegiato), uno sforzo in più non sarebbe utile?
Certamente auspico che la carta stampata cominci a scrivere di più del nostro sport, anche per aiutare a capirne le regole, certamente non immediate per un neofita. Solo così potremo sperare nel grande salto e diventare uno sport primario nel panorama nazionale. Penso a rubriche fisse, anche non quotidiane, oppure ad articoli per i nuovi appassionati che li accompagnino per mano nel nostro mondo, spiegando i fondamentali ma anche raccontando la vita dei club, il pre e il postpartita, le belle storie di cui il nostro mondo è pieno.

Alla lista dei negligenti, però, manca ancora qualcuno, ovvero la Federazione.
Anche in questo caso voglio essere molto sincero: la Federazione non ha colpe, il presidente Giancarlo Dondi sta cercando di dar vita a una grande politica di avvicinamento dei giovani al rugby e questo è fondamentale. La priorità deve essere l’educazione sportiva a livello di club, fin da quando i ragazzi sono piccolissimi. Bisogna insegnare loro che essere leali è più importante che essere furbi, anche se sembra che i secondi ottengano maggiori risultati con minore sforzo. Non è così, in nessun ambito della vita. Senza sacrificio non si ottiene nulla e nemmeno mollando di fronte alle difficoltà. Se riusciremo a fare questo avremo fatto moltissimo. Certo, quando poi vedo un allenatore che spara un calcio nel culo a un suo collega mi fermo e mi chiedo che esempio dia a chi sta guardando, bambini in testa.

Una domanda che forse non le hanno mai fatto in un’intervista e alla quale può scegliere di non rispondere: lei è credente?
Nessun problema a rispondere. Sì, sono molto religioso, sono cattolico e praticante, vado a Messa la domenica. Ma, a dire il vero, preferisco andare in chiesa da solo quando non c’è nessuno, per parlarGli direttamente, da uomo a uomo.

Mauro Bottarelli

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