
Albertini: «La globalizzazione e la riflessione che l’Italia non è ancora libera di fare»
Gabriele Albertini, oggi europarlamentare nonché presidente della Commissione Affari Esteri, ricorda Marco Biagi e la sua esperienza di sindaco di Milano, legata al giuslavorista bolognese ucciso dalle BR.
On. Albertini, la sua esperienza di sindaco di Milano è piuttosto legata alle politiche del lavoro e, anche, alla figura di Marco Biagi, ricordato in questi giorni nel 9° anniversario del suo assassinio…
Marco Biagi è stato condannato a morte dopo e per il Patto di Milano, il 6 luglio 2000, quando, come rivendicazione per una bomba che era esplosa alla sede della Cisl milanese, sono stati rinvenuti dei volantini in cui Biagi era accusato, insieme al sindaco di Milano, già presidente di Federmeccanica, di essere il fautore della destrutturazione dei diritti. Purtroppo la contestualità di questo episodio e del Patto di Milano, mi fa spesso pensare che anche Massimo D’Antona aveva pagato con la vita l’aver toccato questi argomenti che, invece, il contesto economico globale impone di affrontare, ma che in Italia non si ha ancora la libertà di fare.
Da tutto il mondo, tutti gli anni, vengono illustri studiosi a ricordare la persona e la sapienza di Marco Biagi. Come è possibile in Italia che tanto impegno venga pagato a così caro prezzo?
Nel nostro paese il ciarpame ideologico e massimalista che ha accompagnato e insanguinato il novecento ha trovato terreno fertile: benché il partito comunista in Italia non sia mai stato al governo, era il più forte partito comunista dell’Occidente, questo è un dato di fatto; quando si definivano le Brigate Rosse e, risalendo più indietro, alla resistenza delle Brigate Garibaldi, non era la resistenza di Giustizia e Libertà: questi ultimi volevano instaurare un regime democratico parlamentare, i primi volevano iniziare la lotta di classe e, attraverso una rivoluzione, instaurare la “dittatura del proletariato”. C’è una realtà tutta nostra e su questi temi si può morire e ci sono stati dei morti. Dispiace ammetterlo ma le nostre divisioni portano a queste realtà.
La nostra società civile e le nostre Istituzioni hanno speranza di crescere una cultura diversa e, sicuramente, più europea?
C’è speranza quando queste divisioni scompaiono, quando non esisteranno più interlocutori che si rifanno ad esperienze superate dalla storia, sono passati più di vent’anni dal muro di Berlino. La visione classista della storia è stata sconfitta ma ci sono ancora delle propaggini ma non con la violenza e l’intensità di quegli anni.
Tornando a Milano e al suo dinamismo economico, la Camera di Commercio di Milano ci indica attualmente una durata media delle imprese intorno ai 10 anni. Ci sono ancora – a questo punto – visione e progettualità imprenditoriali?
Come sosteneva Luigi Einaudi, imprenditore è colui che investe e produce, ma non per il profitto fine a se stesso. L’imprenditore intraprende, per migliorare la qualità, l’organizzazione, la capacità produttiva, le risorse della sua impresa. Insomma per proseguire la sua opera oltre se stesso; la parola intraprendere ha in sé la radice di incominciare. Imprenditore significa incominciatore, incominciare per non smettere mai. La durata dell’impresa, che a volte va oltre la vita del suo fondatore, ha un po’ questo significato, sopravvive e ha una finalità proiettata nella storia e non solo nella vita dei singoli. In periodi più recenti i dati riferiscono l’aumento vertiginoso del numero delle imprese e la durata media di 10 anni. L’aumento del numero delle imprese è indice di una fertilità straordinaria, i distretti industriali, il piccolo che si aggrega e si inventa nuove tecnologie, un nuovo modo di produrre che obbedisce alle regole della contingenza del mercato. La durata che diminuisce è un po’ il limite della globalizzazione e del dinamismo della nostra civiltà.
Cosa ci dice relativamente alla sua esperienza europea?
Il trattato di Maastricht ha inventato l’euro e ha cancellato le monete nazionali. Manca una politica fiscale ed economica che supporti la moneta unica anche per la diversità degli stati. Per la politica estera il trattato di Lisbona ha espresso una istituzione che si sta dotando di un corpo diplomatico che a regime avrà la dimensione di una grande potenza mondiale. Tuttavia rimane la politica estera degli stati membri e la difficoltà di armonizzare una politica estera comune europea quando permangono posizioni e interessi dei singoli stati. Pensando ai passi che si sono fatti, dalla Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) all’Euratom, si può pensare che tra qualche anno ci sarà una politica estera europea, cosa che mi appassiona e gratifica molto.
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