Dove non passano le merci passeranno gli eserciti

Di Carlo Marsonet
25 Maggio 2025
Il libro di Stagnaro e Serravalle sul "Capitalismo di guerra" invita a riflettere su quei piccoli cambiamenti che, limitando la libertà e lo scambio, portano dalla pace al conflitto

A breve, nel 2026, ricorrerà un evento significativo per la storia delle idee. Nel 1776, duecentocinquanta anni fa esatti, veniva infatti pubblicato La ricchezza delle nazioni, un testo fondamentale per capire il funzionamento di un’economia basata sulla divisione del lavoro e sulla cooperazione sociale: in breve, sull’economia di mercato. Adam Smith provò a mostrare come empiricamente un’economia libera funzionasse, spiegando come tutti beneficino dallo scambio. Da ciò emerge un ordine più grande, più prospero e più libero per tutti, con buona pace dei socialisti di ogni colore. Un’idea, sia chiaro, che non ha mai avuto un grande seguito: il capitalismo, l’economia di mercato o economia di concorrenza, come la si voglia chiamare, viene concepita come un sistema retto da pochi, il regime dei “padroni”. Il momento attuale ripropone questo pregiudizio: l’idea cioè che dallo scambio non vengano migliorate le condizioni di tutti, sebbene in misura diversa, quanto piuttosto che il vantaggio di uno sia a detrimento dell’altro. Si confonde, dunque, l’economia di mercato con il mercantilismo.

Un mutamento per gradi

Confondendo l’uno con l’altro, però, si commette un errore esiziale, quello di concepire la ricchezza come una quantità fissa che non può essere ampliata. Se lo scambio non porta benefici a tutti ecco allora che lo Stato interviene per sanare questa ingiustizia. Ma, così facendo e poco a poco, si creano le condizioni per distruggere i prerequisiti della ricchezza e della libertà. Se a questo si aggiunge poi un certo stato di tensione tra paesi, il che comporta una ulteriore chiusura economica e limitazione della libertà in nome della “sicurezza nazionale”, il gioco è fatto.

Ne parlano Carlo Stagnaro e Alberto Saravalle in Capitalismo di guerra. Perché viviamo già dentro un conflitto globale permanente (e come uscirne), pubblicato da Fuoriscena. Per gli autori, la situazione contemporanea non invita certo all’ottimismo. Non si passa dall’economia di mercato dei periodi di pace a un capitalismo di guerra in maniera rapida e improvvisa. Al contrario, il mutamento avviene per gradi, così che lentamente, e magari sulla base dei più lodevoli propositi, si decide di limitare la libertà e lo scambio dei commerci. Il risultato è però sempre il medesimo: si tratti di sicurezza nazionale o altro, il controllo dello Stato sull’economia prende il sopravvento. E ciò non avviene solo statizzando comparti interi, bensì imponendo dazi, vietando esportazioni in paesi ostili, controllando gli investimenti esteri, elargendo sussidi.

Interno ed esterno

Le due leve che contraddistinguono questo paradigma, non del tutto nuovo, se non per alcuni settori chiave (pensiamo solo al digitale e alle politiche energetiche), sono un interventismo sempre più massiccio della politica nell’economia, in chiave interna, e un certo spirito aggressivo sul piano esterno, in nome della propria sovranità nazionale strategica.

Un paradigma che neanche tanto inintenzionalmente porta alla distruzione dell’interdipendenza economica tra paesi, creando così condizioni favorevoli per conflitti bellici, col proposito di fare a pezzi qualcosa che nessuno ha creato secondo un piano, cioè quella che siamo soliti chiamare globalizzazione.

Un dato su tutti, che dovrebbe fare riflettere, è quello del numero dei provvedimenti adottati per restringere il libero commercio: «Secondo il Global Trade Alert – scrivono Stagnaro e Saravalle – dal 2008 a oggi sono stati adottati a livello globale ben 57mila provvedimenti con effetti restrittivi sugli scambi internazionali. Di questi, oltre il 40 per cento (circa 29mila) si concentrano nell’ultimo quinquennio».

Come diceva Frédéric Bastiat, un grande economista francese spesso preso poco sul serio perché aveva l’imperdonabile vizio di parlare in modo chiaro e semplice, come se questo andasse a detrimento della capacità di analisi e della profondità concettuale, dove non passano le merci passeranno gli eserciti.


Alberto Serravalle, Carlo Stagnaro, Capitalismo di guerra. Perché viviamo già dentro un conflitto globale permanente (e come uscirne), Fuoriscena, 224 pp, 16 euro


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