
Stato-Mafia, perché diffidare dei pentiti come Brusca e dei loro pm “confessori”
Giovanni Brusca dice che la classe politica italiana è collusa con la Mafia. Lo ha fatto ieri mattina, parlando nell’aula bunker di Santa Verdiana a Firenze, nel processo che vuole fare chiarezza sulle stragi del 1993. Brusca è l’uomo che ha ucciso Giovanni Falcone e altri servitori dello Stato, diventato “famoso” soprattutto per aver sciolto un ragazzino nell’acido.
Brusca ha detto, in sintesi, che nel 1992 la mafia intratteneva rapporti con Giulio Andreotti ma anche con la sinistra «intesa in senso lato, non il Pci, quella che governava nel 1992-93». Il pentito ha inoltre affermato che «Marcello Dell’Utri e Vito Ciancimino volevano portare a Riina la Lega Nord e un altro soggetto politico che non ricordo». Dell’Utri, tramite lo stalliere di Arcore, Vittorio Mangano, doveva essere – sempre secondo le rivelazioni di Brusca – il contatto per arrivare a Silvio Berlusconi. Brusca ha però escluso che Berlusconi e Dell’Utri c’entrino qualcosa con le stragi di Cosa nostra. L’accusa più pesante, il mafioso l’ha rivolta a Nicola Mancino, il «committente finale»: «Finora non l’ho mai detto pubblicamente, ma Riina mi fece il nome di Mancino, allora ministro dell’Interno».
Fin qui, la cronaca. Ora, però, si impone una riflessione sulle rivelazioni dei pentiti, le cui parole – come dimostra anche il recente caso delle bufale spacciate da Massimo Ciancimino Jr – vanno prese con le molle. Lo stesso Mancino, in una precedente puntata di quello che è ormai quasi un genere letterario, un fuilleton mafioso pubblicato a rate da certa stampa progressista, lo disse con parole chiare in una lettera a Repubblica il 17 marzo scorso. Dopo essere stato tirato in ballo da Claudio Martelli, Mancino decise di scrivere una lettera al quotidiano, il cui finale suonava così: «Quanto a Brusca, faccio rilevare che le confessioni a rate dei pentiti che durano lustri vanno considerate con particolare attenzione anche per valutare se esse siano un tardivo ricordo o un aggiornamento facilitato dalla lettura dei giornali».
Oggi, in un’intervista sul Foglio, Mauro Mellini, ex parlamentare radicale, offre una lettura del “sistema del pentitismo” molto contundente. Dice Mellini: «Il cosiddetto “pentitismo” nasce dall’abuso dei magistrati, che assicurano ai mafiosi premi che la legge non prevede, in cambio delle loro rivelazioni. I magistrati dicono: “Trattiamo noi con i mafiosi arrestati”, e usano come prova anche quello che potrebbe essere al massimo un indirizzo per dare una direzione alle indagini». Per Mellini il pm si è ridotto a essere «una sorta di “magistrato poliziotto”, a forza di indagare sulle ipotesi di reato e di usare i pentiti come mezzi di prova, li istiga a rendere le loro confessioni sempre più clamorose. Brusca deve dimostrare di essere un superpentito ai pm che gli chiedono: “Ma come, non sai niente?”». Insomma, è il pentito a tenere in ostaggio il pm, rivelando quel che più può fargli comodo. Di più, dice Mellini e basterebbe sfogliare i verbali degli interrogatori dei pm Antonio Ingroia e Anonino Di Matteo a Ciancimino Jr: «La lettura dei verbali è sconcertante. Questo Massimo Ciancimino non dice mai niente, parla sempre per induzione da parte del pubblico ministero».
Tali osservazioni non si discostano di molto da quelle di Vito Marino Caferra, presidente della Corte d’appello di Bari, che in suo recente libro (La giustizia e i suoi nemici, Cacucci editore, recensito anche da Tempi) mette in guardia i colleghi dall’innamorarsi troppo dei pentiti. «I pentiti sono strumenti necessari ma ambigui», scrive Caferra. «La legislazione antimafia ha creato nuove condizioni per un’ulteriore confusione di ruoli tra polizia giudiziaria e pm». Un azzardo che può comportare «straordinarie perversioni» perché «il rapporto col pentito presenta il rischio di una eccessiva personalizzazione, che finisce col condizionare anche la valutazione probatoria delle sue rivelazioni e le sue vicende processuali». Il pm che si innamori delle sue teorie (Caferra lo chiama il “magistrato-confessore”) difficilmente può essere imparziale perché, «avendo fondato le sue iniziative processuali sulla credibilità del pentito, è tentato di difenderla in ogni sede con il rischio di dannose sovrapposizioni con gli organi giudiziari competenti».
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