
La Camera approva lo Statuto delle imprese, “rivoluzione copernicana” per le Pmi
Via libera dell’Aula della Camera allo Statuto delle Imprese. Il testo, approvato all’unanimità, ora passa al Senato. Pubblichiamo il discorso in Parlamento dell’onorevole Raffaello Vignali (Pdl), primo firmatario della legge, vicepresidente della X° Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo della Camera dei Deputati e consigliere del ministro per lo Sviluppo Economico, Paolo Romani, per le politiche delle piccole e medie imprese.
Signor Presidente, non posso negare la mia soddisfazione per il fatto che lo statuto delle imprese oggi arriva in quest’aula. È una soddisfazione certamente perché il provvedimento in esame porta anche la mia firma, ma soprattutto perché si tratta di un provvedimento fortemente voluto dalle imprese, in particolare dalle piccole, che sono – e non per modo di dire – la spina dorsale della nostra economia. Non a caso tutte le associazioni delle piccole imprese hanno sostenuto il provvedimento in esame: il presidente di una di esse l’ha definito una rivoluzione copernicana e ci hanno dato anche suggerimenti per migliorarlo.
In questo caso la classe politica ha accettato la sfida, ha messo da parte quello scontro a priori che troppo spesso contraddistingue il dibattito politico e parlamentare e si è concentrata su uno dei problemi più avvertiti, quello della crescita. Di questo atteggiamento è testimonianza il lungo ed approfondito lavoro svolto insieme alla X Commissione, in unanimità sul testo che oggi discutiamo. Personalmente non posso che augurarmi che questo stesso atteggiamento venga ribadito nell’Assemblea nella sua pienezza.
Mi sia consentito anche un particolare ringraziamento ai colleghi della X Commissione, ai funzionari che ci hanno assistito con assiduità e passione, ma anche ai colleghi ed ai funzionari delle altre Commissioni, in particolare la I, la II e la V, che hanno dato suggerimenti utili al miglioramento di un testo che per sua stessa natura coinvolge competenze diverse. Mi sia consentito anche un ringraziamento al Governo, che ha sostenuto pubblicamente e in sede operativa il provvedimento in esame, dal Presidente Berlusconi al Ministro Romani. Un ringraziamento particolare lo vorrei rivolgere anche al sottosegretario Casero, che ha seguito con spirito costruttivo l’esame in V Commissione.
Una sottolineatura merita anche il consenso bipartisan che si è registrato sulla proposta di legge: in un clima politico in cui sembra possa esistere solo lo scontro, questa volta il Parlamento dimostra di sapere essere unito per il bene del Paese. Succede di rado, ma accade di regola quando l’ottica con cui si affrontano i problemi e si costruiscono le soluzioni è la sussidiarietà. La comunicazione della Commissione europea del 12 gennaio scorso che sta discutendo la Commissione bilancio, «Analisi annuale della crescita», mentre prende atto che la ripresa procede con sempre maggior vigore e a ritmo sempre più sostenuto, chiede agli Stati membri un impegno forte: «Ora che le prospettive iniziano a migliorare, si impone un’azione politica risoluta». E spiega in modo molto chiaro: «Pur essendo condicio sine qua non per la crescita il risanamento finanziario, il risanamento finanziario non basta a stimolarla. In mancanza di politiche proattive la crescita potenziale rimarrà probabilmente modesta nel prossimo decennio. Per la crescita sarà essenziale avere un contesto favorevole all’industria e all’impresa, in particolare alle piccole e medie imprese. In mancanza di crescita, il risanamento di bilancio risulta ancora più problematico».
Lo statuto delle imprese che oggi discutiamo va esattamente nella direzione suggerita dall’Unione europea, ovvero la creazione di un ambiente esterno in cui fare impresa sia gratificante o quanto meno non ostacolato da parte dello Stato e della pubblica amministrazione. C’è in Italia un grande paradosso: siamo il Paese con il più alto tasso di imprenditori e allo stesso tempo anche uno di quelli in cui è più difficile fare impresa. A questo riguardo il rapporto Doing Business della Banca mondiale sulla libertà economica ci colloca al settantottesimo posto, dietro la Cina. Se vogliamo agganciare la crescita non possiamo non porci il problema di come mettere le nostre imprese in grado di competere. Infatti, le energie per far crescere il PIL e l’occupazione del Paese stanno innanzitutto nei nostri imprenditori. Spesso, si imputa al nostro sistema produttivo la debole crescita del PIL e non si guarda, invece, ai fattori esogeni all’impresa, quei fattori ambientali che costituiscono una condizione decisiva della competitività, che è sempre più una competitività di sistema.
Per anni, abbiamo sentito demonizzare l’anomalia italiana da parte di certi guru, che volevano spiegarci che le nostre imprese erano malate mortalmente di nanismo e di familismo ed incapaci di comprendere le magie della finanza. Per fortuna, all’avvento della crisi, hanno dovuto cambiare argomento. Tutti, in Italia e in Europa, si sono dovuti rendere conto che l’anomalia, il problema non è il nostro tessuto produttivo, ma il fatto di non credere in esso fino in fondo. Tuttavia, anche ora, non possiamo pensare che la crescita possa avvenire per decreto né, come sovente capita di sentire, possiamo pensare che essa sia semplicemente l’esito della quantità di risorse pubbliche che possiamo mettere in campo, e noi ne possiamo mettere in campo poche, a causa del nostro debito pubblico. Anche nella politica economica, invece, occorre innanzitutto sussidiarietà: in altri termini, occorre riconoscere il positivo che c’è, valorizzarlo e sostenerlo.
Queste sono le linee sulle quali si muove lo statuto. Esso mira, innanzitutto, al riconoscimento non solo economico, ma anche sociale, dell’impresa, del suo contributo essenziale al benessere generale; crea una visione positiva dell’imprenditore improntata alla fiducia e non a quel sospetto che ha determinato, per decenni, la legislazione italiana e che ha prodotto quei «lacci e laccioli» che oggi sono un freno insostenibile nella competizione globale. Per questo, nello statuto, si rafforza il principio del silenzio assenso e della responsabilità sugli atti della pubblica amministrazione e si riduce fortemente la discrezionalità dell’apparato pubblico.
In secondo luogo, si intende invertire il paradigma che ha guidato le politiche per le imprese, passando dal paradigma secondo cui «quello che va bene alla grande impresa, va bene all’Italia» a: «quello che va bene ai piccoli, va bene all’Italia». Ciò non perché si è cultori del «piccolo è bello», ma per realismo: piccolo è quello che c’è, e le piccole e medie imprese rappresentano il 99 per cento del totale. Per questo, si introduce anche il principio di proporzionalità delle norme, con oneri minori e tempi di adeguamento più lunghi per le piccole imprese; si interviene sulla normativa del fallimento per salvare l’indotto; si rendono più stringenti le norme sui tempi di pagamento e si allargano i poteri dell’Antitrust. Vorrei soffermarmi anche sulle possibili e principali criticità che sono state sollevate e dare una risposta a domande che sono state avanzate da diverse parti. Innanzitutto, la presunta impossibilità di prevedere i termini prescrittivi per la chiusura dei procedimenti fallimentari non fraudolenti in un anno.
La X Commissione, accogliendo i rilievi della Commissione giustizia, ha sostituito il termine perentorio di un anno con una dicitura un po’ vaga, in termini ragionevolmente brevi. L’indicazione originaria del testo mirava ad attuare uno dei dieci principi dello Small business act dell’Unione europea. Peraltro, in diversi Paesi europei, questo termine viene rispettato. In alcuni casi, i termini sono addirittura dimezzati. Io non sono né un magistrato né un avvocato, capisco un po’ più di organizzazione e, infatti, fatico a comprendere dove sia l’impossibilità di concludere i procedimenti in un anno, potendo utilizzare anche le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Siamo impegnati, come Governo e come Parlamento, ad abbreviare i termini della giustizia civile: perché non possiamo adottare le migliori prassi di quei Paesi che fanno meglio di noi? La seconda criticità avanzata riguarda la modifica della normativa sugli appalti che lo statuto introduce.
Al riguardo, mi preme affermare che anch’essa prende le mosse dalle indicazioni dello Small business act, laddove chiede che le PMI possano essere meglio informate sugli appalti pubblici; che sia previsto, ovviamente senza ledere il principio di concorrenza, il loro frazionamento – laddove tecnicamente possibile – e che sia garantita una quota di riserva per le PMI. Si tratta di un invito che ci rivolge l’Europa e non possiamo certo disattenderlo, tanto meno invocando l’Europa stessa. Il problema del rapporto con le regioni merita una terza riflessione. Il riformato Titolo V della Costituzione assegna ad esse un ruolo di primo piano. Lo statuto non invade le competenze regionali: esso fissa dei diritti minimi per le imprese, e questo è compito dello Stato. Alle regioni, il compito – che mi auguro sia esercitato anche con più forza – di prevedere maggiori tutele nell’ambito dei propri poteri.
Quanto alla Commissione bicamerale per le micro, piccole e medie imprese, essa non mira né a sostituirsi alle Commissioni permanenti del Parlamento, né, ovviamente, a prevaricare un ruolo regionale; al contrario, essa ha come compito, nei fatti, la vigilanza sull’attuazione dello statuto stesso. Per questo motivo, essa non comprime, ma esalta nel merito il ruolo regionale, così come rafforza l’azione delle Commissioni parlamentari e di tutto Parlamento.
Essa ha anche un valore simbolico di attenzione verso quei milioni di nostri concittadini che intraprendono, ma il suo valore non è solo simbolico. Essa ha il compito di riconoscere, valorizzare e sostenere l’azione delle nostre piccole e medie imprese in modo permanente e con tutto il risalto che meritano, soprattutto in considerazione della dimenticanza che la classe politica ha avuto nel passato nei confronti di questo mondo, che è quel pezzo del Paese che fa andare avanti tutta l’Italia. In generale, vorrei comunque rispondere a tutte le obiezioni, compresa quella delle risorse: la parte fiscale è stata stralciata perché il Governo sta lavorando ad una riforma; il Ministro Tremonti, come sappiamo, è impegnato in diversi tavoli su questo. Tuttavia, in generale vorrei rispondere alle obiezioni che sono state rivolte, con queste domande: vogliamo davvero la crescita? Vogliamo davvero dare al nostro sistema un grado maggiore di competitività? Se è così, non possiamo confondere gli strumenti, ossia le norme e l’organizzazione, con il fine, che è la crescita.
Dobbiamo, invece, avere il coraggio e la capacità di rivedere e riformare norme e organizzazione per renderle più corrispondenti allo scopo: la crescita. Ciò si può fare senza comportare costi per lo Stato. Lo statuto, quindi, non è inutile. Anche io avrei preferito il testo della Commissione, e non eliminare previsioni – come si è dovuto fare – presenti nella prima fase della discussione, in particolare quelle riferite direttamente allo Small business act. Tuttavia, credo anzi che, con l’aiuto delle Commissioni che hanno espresso i pareri, abbiamo avuto un atteggiamento costruttivo che ci ha permesso di salvare la maggior parte delle previsioni che lo statuto introduceva.
Sono alla conclusione del mio intervento e la vorrei dedicare al ringraziamento sincero e accorato che, mi auguro, sia di tutto il Parlamento verso quei milioni di persone, di nostri concittadini – i piccoli e gli invisibili, come li ha chiamati efficacemente in un suo editoriale Ferruccio De Bortoli – i quali, ogni giorno, costruiscono il benessere di cui tutti noi godiamo. In molte delle fabbriche, delle officine, dei negozi e degli studi del Paese, si può leggere una frase di Luigi Einaudi, grande economista e statista, purtroppo troppo spesso dimenticato, che afferma: «Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti (…) costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi».
Questa frase – che ho voluto anche richiamare nella relazione introduttiva alla proposta di legge sullo statuto – ricorda ogni giorno a tantissimi imprenditori lo scopo vero dell’impresa, ossia la creazione di un valore del fare impresa, che eccede l’impresa stessa; un valore non solo economico, ma anche sociale, culturale e antropologico; un valore che non è solo per gli azionisti, come abbiamo sentito predicare e abbiamo visto applicare in tante prestigiose società di consulenza nel mondo finanziario e anche nelle multinazionali negli anni scorsi e che hanno portato alla crisi.
Al contrario, i nostri imprenditori creano un valore per tutti, per loro stessi, certamente, ma anche per i propri collaboratori, i dipendenti, i fornitori, i clienti, il territorio in cui insistono e lo Stato stesso; un valore creato dal desiderio autenticamente umano di costruire, privo di ogni nichilismo; un valore creato dall’impegno libero, responsabile e quotidiano.
Ne abbiamo visti esempi commoventi nei lunghi e difficili mesi della crisi, quando i nostri imprenditori non hanno seguito la pura ragione economica, che avrebbe con tutta evidenza chiesto loro di chiudere le aziende e di licenziare. Essi, invece, hanno tenuto duro. Quindi, un atteggiamento che non è darwiniano, né dentro l’impresa, né tra le imprese. Per questo motivo, quando chiediamo più libertà per l’impresa, non chiediamo il mercato selvaggio, ma chiediamo semplicemente che siano liberate quelle energie di cui, grazie a Dio, il nostro Paese è ricchissimo, per fare crescere l’Italia; chiediamo che sia premiato il merito reale e quotidiano dei nostri imprenditori, ai quali, con lo statuto, diciamo innanzitutto: grazie, grazie e ancora grazie.
1 commento
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono chiusi.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!