«Arriva il giorno che si è stanchi rasi di leggere e ascoltare le insensatezze». Suor Anna Monia, presidente di una associazione di scuole paritarie, mostra una tabella comparata di come sta messa la scuola italiana in Europa. Su 28 paesi, i nostri 15enni sono al sedicesimo posto nella competenza in lettura, al 21esimo in matematica, al 22esimo in scienze. Inoltre, come sistema paese, siamo al 24esimo posto per abbandoni precoci, al 27esimo sia per livello di istruzione della popolazione sia per età degli insegnanti (solo l’11 per cento ha meno di 39 anni nelle scuole secondarie) e al 26esimo per tasso di occupazione giovanile e di diplomati e laureati che lavorano nel campo degli studi che hanno sostenuto.
Siamo tutti capaci di sognare per l’Italia un dolce domani dove gli abbandoni scolastici saranno percentuali residuali, le competenze dei nostri figlioli rispetteranno la media europea, il disagio giovanile frutto di disoccupazione mentale e frustrazione da caserma (spinelli, alcol, bullismo, anoressia eccetera) verrà drasticamente abbattuto. Tutti sono capaci di immaginarsi una “Buona Scuola”. Il problema è che l’immaginazione teme i sacrifici, i costi, le azioni che si rendono necessari per trasformare i sogni in realtà. E così il ministro Maria Elena Boschi ha perfettamente ragione quando sogna che «lasciare la scuola solo in mano ai sindacati non funziona». La realtà è che la scuola è in mano ai sindacati. Dunque la signorina si becca la ramanzina della Cgil, sindacato dei sindacati: «Il ministro conferma l’arroganza e il disprezzo della democrazia» (talché, commenterà nella rassegna Stampa & regime di Radio Radicale Massimo Bordin, «la Cgil ammette che sì, c’è democrazia solo se in mano ai sindacati»).
Supponiamo però che un piccolo sforzo di realtà il governo Renzi l’abbia fatto. Un pizzico di autonomia, di autorità e di responsabilità in più nella scuola (con l’ovvia – ovunque, tranne nel soviet – introduzione di elementi di merito e di valutazione delle professionalità). Impossibile. Non è come per l’Italicum. Schiantare i partiti è un gioco da bambini. Chissenefrega se la minoranza Pd la prende in quel posto e il grillino va sull’Aventino con Vendola e Brunetta. È invece talmente ingarbugliato, coatto, cementato il campo dell’istruzione pubblica, che come ti muovi sbagli. E come sbagli prendi ceffoni (che poi faranno male alle urne). E infatti, erano anni che non si vedeva uno sciopero del comparto scuola – insegnanti, bidelli, precari, postulatori eccetera – così ben riuscito. Secondo le cifre ufficiali fornite dal dipartimento della Funzione pubblica, gli aderenti sono stati 618.066 su un milione di dipendenti, il 64,89 per cento. Con ciò, un milione tredicimila e trecentoventidue addetti della scuola (dato della ragioneria di Stato aggiornato al 16 dicembre 2013) sono stati comandati da Cgil, Cisl, Uil, Confsal, Snals, Cgu-Cisal, Gilda, Usb, Unams, Usae, Cse e tante altre sigle minori, a fare uno sciopero che non si vedeva dagli anni Novanta. Hai voglia a dire che lasciare la scuola in mano ai sindacati non funziona. La scuola è in mano ai sindacati. È così che funziona. E sono mica pochi i tesserati. Mezzo milione. Da qui la asseverazione strategica da parte di giornali come Repubblica, monsignor Della Casa e Galateo de’ costumi tra le aule scolastiche.
C’è alternativa a questo sistema di provare a fare una riforma a Roma e, contestualmente, sbattere la testa sull’irriformabilità del sistema? Sì. Se Roma avesse il coraggio di predicare la via lombarda e veneta all’istruzione pubblica. Che è poi l’esatta (e inapplicata a livello nazionale) via alla parità scolastica indicata da una legge del 2000 detta anche “Berlinguer” (non un Caimano, ma il comunista parente dell’altro più celebre Enrico). Questa legge, integrata dai “Buoni Scuola”, ha per caso messo per strada gli insegnanti e messo in crisi le scuole statali? O ha creato più scuola pubblica e opportunità di lavoro?
Come diceva il compagno Gramsci
Basterebbe, per dire, legiferare a Roma tale e quale quanto ora domanda la petizione milanese di Maria Chiara Parola e Felicita Fenaroli, due mamme “sottoscritte” da altre ventimila: «Si determini il costo standard per alunno e si utilizzi quel criterio per finanziare tutte le scuole pubbliche (statali, paritarie e degli enti locali) per mettere chiunque in condizione di scegliere la migliore scuola pubblica per i propri figli». È tutto molto semplice. Perché il 90 per cento dei 55 miliardi che lo Stato spende per la scuola se ne va in stipendi invece che in investimenti per rendere, come si dice, la scuola italiana riformata, innovativa, efficiente e pubblica alla grande? Perché lo Stato (e i sindacati) insistono a difendere una spesa di circa 8 mila euro ad alunno quando il privato sociale svolge lo stesso servizio a metà costo.
L’alternativa definitiva? Quella indicata a suo tempo dal compagno Antonio Gramsci, dimenticato e tradito dalla sinistra italiana: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato». Chi la sta provando questa via gramsciana alla scuola pubblica? Ad esempio i Tipi Loschi di San Benedetto del Tronto. Che come le radio libere battezzate negli anni Settanta fanno già ora una scuola libera. «Ma libera veramente e mi piace ancor di più perché libera la mente» (cantava Eugenio Finardi) dalla sudditanza nei confronti dello Stato, dal comando dei sindacati, dai luoghi comuni di monsignora la Repubblica.