Rispose male quel giorno di dieci anni fa il cancelliere, l’“allora cancelliere” tedesco Helmut Kohl: gli avevano chiesto quanti soldati tedeschi sarebbe stato disposto ad impiegare nei Balcani, in Bosnia, per difendere i musulmani massacrati dai serbi. Fece una smorfia, il gigantesco cancelliere della potenza più influente nella zona (il marco era la moneta corrente allora) e la risposta ancorché cinica si rivelò profetica: «Non un soldato, se questo servirà a portare l’islam in Europa».
Teatri balcanici e spettatori Onu
Cinica risposta davvero, in quei giorni faceva urlare di rabbia il martirio di Sarajevo, la tragedia della città bella e cosmopolita e ricca di cultura e fascino crocifissa nell’indifferenza del mondo e nella colpevole ottusità delle Nazioni Unite, “parte terza” tra i serbi che bombardavano e le donne e i bambini che saltavano in aria. Allora le regole di ingaggio erano queste: parte terza, né con gli uni né con gli altri, e l’inviata giapponese dell’Onu scriveva che la vita a Sarajevo «is a little bit uncomfortable», è un po’ scomoda. Così si poteva essere parte terza tra un cecchino che inquadra un bimbo di sei anni e si prepara a fargli esplodere il cranio e lo stesso bimbetto che sta scendendo con la slitta da una collina piena di neve. La terzietà che aveva portato i caschi blu olandesi ad assistere, terzi spettatori, al massacro di Srebrenica. La conoscono bene la terzietà Onu da queste parti, come in Kosovo, dove in cinque anni di amministrazione delle Nazioni Unite sono state distrutte più chiese e monasteri che in cinquecento anni di dominazione ottomana. Allora, a Sarajevo, a massacrare erano i serbi, in Kosovo i serbi ora sono le vittime, dopo essere stati i carnefici. E la “terzietà Onu” dovrebbe perlomeno far riflettere chi invoca l’intervento dei caschi blu come magica panacea dei mali dell’Irak.
160 nuove moschee in Bosnia
Ma la terzietà Onu fu anche la porta che aprì i Balcani all’intervento di quanti volevano combattere nel nome della fratellanza musulmana. Vennero allora, dieci anni fa, i primi combattenti di Al Qaeda e ci furono imam venuti da tutta Europa per combattere a difesa dell’islam bosniaco. Un islam che tutto era, e tutto è, fuorché fondamentalista. Basta girare ancor oggi per Sarajevo, ragazze truccate alternano chador a top mozzafiato. E la signora che si dichiara orgogliosamente musulmana ha i capelli ossigenati e la gonna che lascia generosamente scoperte le gambe. E nessuno ha nulla da dire.
Nessuno? In realtà qualcosa sta cambiando: le moschee sono in costruzione dappertutto. E le scritte di ringraziamento dicono che i fondi arrivano dall’Arabia Saudita, dal Bahrein, dallo Yemen, dall’Iran, perfino dalla Malaysia.
Paesi musulmani che inviano soldi e uomini per centri di culto, università, madrasse (le scuole coraniche), o organizzazioni umanitarie, Ong o associazioni private di cittadini che aiutano orfani e vedove e le tante povertà lasciate dalla guerra.
Tremila wahabiti e un campanile
L’Arabia Saudita ha promesso la costruzione di 160 nuove moschee. Alcune associazioni umanitarie sono state chiuse dallo stesso governo bosniaco, che in realtà è un complicato intreccio ed equilibrio delle tre etnie, croato-cattolica, serbo – ortodossa e musulmana. Sono state chiuse perché sospettate di essere legate al mondo fondamentalista.
Il cardinale arcivescovo di Sarajevo, Vinko Pulic, è preoccupato: «C’è una strategia islamica di penetrazione nell’area balcanica. E non è l’islam tollerante che conosciamo. È il fondamentalismo che mette piede in Europa, che vuole entrare usando come porta d’ingresso la Bosnia, nell’Unione Europea».
Il suo vicario, monsignor Mato Zovkic, calcola che a Sarajevo siano attivi almeno tremila islamici legati ai wahabiti, la setta fondamentalista vicina al vertice saudita. Fondamentalisti che hanno studiato nei paesi arabi e che ora si stanno diffondendo, stanno penetrando con lenta costanza nelle zone rurali della Bosnia, dove non a caso si incontrano piccole e grandi moschee ogni pochi chilometri.
Chiese pochissime, i cristiani non riescono a ricostruire nemmeno quelle distrutte dalla guerra. Ci stanno provando a Mostar, una cattedrale nella zona croato-cattolica che dovrebbe affermare un certo orgoglio di presenza, con un campanile che svetta nel cielo della città, ma il grande progetto è fermo. L’impiantito di cemento è spoglio. I soldi stanno finendo.
Gli aiuti che arrivano dalle conferenze episcopali europee sono destinati ad opere umanitarie: «Ma non dobbiamo dimenticare che sono necessari anche i segni visibili – dicono i due presuli – e la Chiesa non può essere assente da una città, da un paese». Basta alzare lo sguardo, a Mostar e Sarajevo vedi un campanile ogni dieci minareti. Nelle campagne soprattutto minareti.
La madrassa di Sarajevo
Il ragazzino che incontro nella scuola coranica più importante di Sarajevo, la madrassa che è stata ricostruita davanti alla più antica moschea, mi guarda con aria decisa: «È vero: durante la guerra sono venuti qui i combattenti islamici. I fondamentalisti. E allora? Io avevo sette anni, si moriva di fame e mia madre non poteva attraversare il ponte per andare al mercato a comprare un po’ di verdure marce, mio padre era sulle colline a cercare di arginare l’esercito serbo che avrebbe voluto sterminarci. Cosa dovevamo fare? Ci hanno aiutato, che c’è di male? E ora noi musulmani siamo fratelli e continuiamo ad aiutarci, fosse necessario un jihad, una guerra santa, o un aiuto economico. Siamo europei, democratici e musulmani, e accettiamo volentieri gli aiuti dei nostri fratelli arabi».
Lo stesso dicono i responsabili di una associazione caritativa che aiuta gli orfani della guerra. Tutti gli orfani, senza distinzioni di religione. Alle pareti gli attestati dei paesi che inviano fondi, prima di tutti il Kuwait, poi via via gli altri, dal Bahrein al Qatar all’Arabia Saudita. Paesi islamici tradizionalisti. «C’è qualcosa di male?», mi chiedono e anche loro guardano all’Europa come il futuro del paese, dove entreranno da musulmani, educati con i fondi arabi.
Dalla Bosnia al Darfur
La potenza economica che nasce dall’oro nero si avverte ora in tutta la sua forza in un paese che è da sempre il punto di ingresso, la soglia di penetrazione dell’islam nel cuore europeo. Ma la domanda è: sarà l’islam tollerante e aperto che siederà con tutti i suoi rappresentanti nel Parlamento europeo che rifiuta il richiamo alle matrici cristiane del continente, o l’islam cresciuto nelle scuole finanziate dai wahabiti fondamentalisti? Quello che sta accadendo in altre parti del mondo dimostra che la domanda non è certo retorica, la risposta non è certo scontata.
In questi giorni ci si è accorti della tragedia del Darfur, la provincia occidentale del Sudan, dove il governo fondamentalista, in lotta da vent’anni con i cristiani del Sud (una guerra che ha fatto due milioni di morti), ora sta attaccando le popolazioni musulmane di etnia africana. Ma non è solo la tragedia del Darfur che rimbalza dalle neglette cronache sudanesi. È stato da poco firmato l’accordo di pace per il Sud e questa potrebbe essere la volta buona. Potrebbe. Ma chi per anni ha sofferto sulla propria pelle quella terribile guerra e ora spera in quella fragile pace vede un altro pericolo all’orizzonte.
La (nuova?) islamizzazione del Sudan
Monsignor Cesare Mazzolari, vescovo misionario comboniano di Rumbek, nel cuore della zona controllata dall’Spla (Sudan People’s Liberation Army), i ribelli che hanno resistito al nord musulmano e arabo che voleva imporre la sharia, la legge coranica, e l’islamizzazione forzata, ora teme per le opere che la Chiesa è riuscita a sostenere fino ad ora. «Già vedo i segni di una nuova offensiva islamica: questa volta non fatta di morti e di bombardamenti, ma l’offensiva economica di chi imporrà, con i fondi arabi, scuole e università musulmane. E temo che si imporrà la tradizione integralista wahabita».
Come in tanti paesi del mondo, dove la strategia della carità islamica si accompagna al verbo fondamentalista. E dove i cristiani, parte debole della popolazione, sono costretti ad emigrare per trovare lavoro e cibo.
E a lasciare terre cristianissime, dove la presenza della Chiesa data da molto prima dell’arrivo dell’islam. È accaduto perfino in Terra Santa, dove i cristiani sono diventati minoranza in città come Betlemme e Nazareth. Sta accadendo, o rischia di accadere, in molti paesi africani. Sta accadendo, lo abbiamo visto, in Bosnia. Il cardinale Pulic è preoccupato: «Prima della guerra i cristiani cattolici erano il 18 per cento della popolazione, ora sono il 14. Gli ortodossi sono praticamente confinati nella enclave della Repubblica serba di Bosnia. I cattolici continuano ad emigrare, e i musulmani moderati, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, si vedono mancare un elemento di contatto, di confronto. Nasce così il rischio dell’integralismo. Quando non ci si conosce, non si cresce insieme, la diversità diventa motivo di odio e non di ricchezza comune».