Nei giorni scorsi la corte d’appello di Roma ha confermato la condanna ai giornalisti Peppino Caldarola e Antonio Polito. I due – il primo come autore, il secondo come direttore responsabile – avevano pubblicato sul Riformista un articolo di satira contro una vignetta di Vauro, in cui veniva rappresentata col naso adunco e il fascio littorio la parlamentare Pdl Fiamma Nirenstein. Nel corso del processo d’appello, sono risuonate in aula parole – a voler usare un eufemismo – un po’ “strane”. Di «razza ebraica» e di «ebrei un po’ troppo suscettibili» ha parlato infatti il procuratore generale di Roma che nel processo ha sostenuto l’accusa. Per chiarire i contorni della vicenda abbiamo interpellato Polito, oggi editorialista del Corriere della Sera.
Polito, può raccontarci come sono andate le cose?
Il sostituto procuratore generale di Roma, durante una replica all’intervento del mio avvocato difensore, ha parlato di «razza ebraica». Per spiegare perché è stata ininfluente, a suo dire, la reazione della comunità internazionale alla vignetta di Vauro, il pg ha detto che, si sa, gli ebrei «sono un po’ troppo suscettibili». Inizialmente, nella sua richiesta alla corte di confermare la nostra condanna, si era limitato a ricordare che Vauro non aveva mai chiamato Nirenstein «sporca ebrea» come avrebbe sostenuto l’articolo di Caldarola al centro del processo; ma, dopo le lunghe repliche degli avvocati difensori, ha iniziato un duro intervento “a braccio” usando quelle parole. Il mio difensore ha quindi replicato duramente che era sgomento per il fatto che un procuratore della Repubblica italiana usasse il termine “razza ebraica” in un’aula di giustizia, che non credeva possibile quello che stava accadendo.
Perché siete stati querelati da Vauro?
Era stato pubblicato su Il Riformista, nella rubrica “Mambo” a cura di Caldarola, un corsivo dai tratti satirici. Vi si immaginava una paradossale riunione di Annozero, in cui ad un certo punto si diceva che Vauro si rifiutava di censurare la “vignetta sulla sporca ebrea”: il riferimento era ad una celebre vignetta, in cui Fiamma Nirenstein, che all’epoca aveva annunciato la sua candidatura con il Pdl, era raffigurata accostata al fascio littorio, con un naso adunco e capelli lanosi, secondo la tradizionale iconografia antisemita. Contro quella vignetta si sono subito schierate sia la comunità ebraica di Roma sia la comunità internazionale. Vauro ci ha querelato e, in primo grado, ha ottenuto un risarcimento danni con la provvisionale, ovvero con l’immediato versamento della somma che gli sarebbe spettata, cosa che avviene raramente, e solo quando la parte che dovrebbe ricevere la multa è ritenuta debole finanziariamente. Abbiamo quindi fatto ricorso in appello: il processo per ora si è concluso con la cancellazione della multa a favore di Vauro, ma con la conferma della condanna penale per me e Caldarola. Ma ci appelleremo alla Cassazione.
In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza d’appello, con che motivazione siete stati condannati in primo grado?
I giudici di primo grado dicevano che Vauro non è antisemita, anche perché lavora con organizzazioni come Emergency, e voleva solo condannare la «mostruosità» (questo il termine letterale usato dai giudici) della candidatura di Nirenstein nel Pdl. I giudici hanno messo in luce che Caldarola ha parlato della «vignetta in cui Vauro chiama Nirenstein “sporca ebrea”». Ma la vignetta, hanno notato i giudici di primo grado accogliendo la difesa di Vauro, invece si intitolava “Mostri elettorali” e poi in basso riportava la dicitura “Fiamma Frankenstein”, quindi quello che ha scritto Caldarola non sarebbe stato vero.
Se non si fosse trattato di Vauro, i giudici di primo grado e appello vi avrebbero assolto?
Non ne ho idea. Di sicuro penso che io e Caldarola non abbiamo compiuto alcuna diffamazione e che è del tutto lecito sospettare quella vignetta di antisemitismo, più o meno consapevole. Non dico che lo debba essere per forza, ma è lecito sostenerlo. Il diritto di satira riconosciuto a quella vignetta non è stato riconosciuto al corsivo di Peppino Caldarola.