Due piccoli ma significativi esempi di come i media interpretino – diciamo così – le notizie che riguardano papa Francesco e le vittime cristiane dell’odio islamista.
PAPA FRANCESCO. La prima riguarda il modo con cui sono state riportate (soprattutto nei titoli ieri sui siti on line e oggi sui maggiori quotidiani) le parole pronunciate mercoledì dal Pontefice durante l’Udienza generale. È da un po’ di settimane, infatti, che papa Francesco conduce una serie di catechesi che hanno per oggetto la famiglia. E lo fa con parole forti, non ambigue e che vanno controcorrente rispetto alla vulgata mediatica che tende a dipingerlo come lassista sui cosiddetti temi “eticamente sensibili”.
Il 15 aprile ha parlato del gender definendolo «un’espressione di frustrazione e rassegnazione». Il 22 aprile ha esortato a riportare «onore» al matrimonio e alla famiglia. Ieri, appunto, ha ripreso il filo del discorso parlando della famiglia come di un «capolavoro».
Anche a un osservatore distratto non dovrebbe sfuggire il messaggio di Francesco. Eppure, utilizzando solo un passaggio della sua catechesi sulla necessità che uomini e donne abbiano diritto a «una uguale retribuzione per un uguale lavoro», i quotidiani di oggi ci presentano il Pontefice come un sindacalista della Cgil. Anzi, pure meglio, visto che la leader del sindacato di sinistra Susanna Camusso s’è sprecata in un applauso ribadendo che «per le donne l’Italia è ferma agli anni Cinquanta». Che è un fatto che si può pure discutere, ma è evidente l’operazione giornalistica di enfatizzare un particolare per oscurare il resto.
GLI «INFEDELI» DI GARISSA. La seconda notizia ce la racconta Paolo Giordano sul Corriere della Sera e riguarda una «performance» messa in scena all’interno dell’Università di Padova. Ottantaquattro studenti si sono sdraiati per terra nel cortile dell’ateneo nelle stesse posizioni delle vittime della strage di Garissa in Kenya. Nel suo articolo, lo scrittore spiega la genesi dell’idea, l’emozione e il grande valore di un gesto che vuole combattere l’indifferenza in cui è caduta la notizia della strage. Tutto bene, o quasi. Infatti Giordano non dice mai – a parte un generico «infedeli» riferito alle vittime – il perché quei ragazzi keniani siano stati uccisi. E conclude così il suo articolo:
In un certo senso, la performance di Padova è stata un modo di pregare per gli studenti kenioti, di pregare in maniera laica, adeguata a un tempio dell’istruzione e del sapere, uniti non da una fede ma dall’appartenenza comune all’idea di università – qualcosa che non ha veri confini territoriali né temporali, qualcosa di universale, come suggerisce la parola. Spesso la preghiera collettiva è servita anche a questo, ad allargare momentaneamente i limiti meschini della compassione individuale, per abbracciare qualcosa di più grande e, altrimenti, inafferrabile.
Ora, come tutti sanno e come sono piene le cronache dell’epoca (anche quella del Corriere su cui Giordano scrive), quei ragazzi non sono stati uccisi perché erano universitari, ma perché erano cristiani. La domanda che rivolgevano loro gli assassini per decidere se liberarli o giustiziarli non riguardava il loro piano di studi, ma la loro fede. Erano «infedeli» sì, nel senso che non erano musulmani come i carnefici islamisti di Al Shabaab. Tra l’altro, l’omissione di questo non piccolo particolare, non rende nemmeno onore a quegli studenti musulmani che hanno aiutato i loro coetanei a nascondersi in moschea, salvando loro la vita.
Foto Ansa