Prima un attentato contro il numero due dell’esercito libanese, poi un altro contro dei caschi blu irlandesi, poi un altro ancora contro una macchina dell’ambasciata americana a Beirut. La serie degli attentati che ha insanguinato il Libano in questi ultimi tre anni non sembra fermarsi. Qualcosa tuttavia è cambiato nella dinamica relativa a quelli sopracitati. Nel mirino non ci sono più politici e giornalisti libanesi ostili alla Siria, bensì altri attori, tutti influenti sulla scena libanese. Nel primo caso si è, infatti, scelto di attaccare il cuore dell’esercito nel momento in cui i libanesi guardano all’istituzione militare come all’unica àncora di salvezza in grado di tirarli fuori dalla lunga crisi istituzionale che il Libano sta ancora attraversando. Il comandante in capo dell’esercito generale Michel Suleiman è, infatti, l’unico candidato presidenziale su cui concordano maggioranza e opposizione. Il messaggio è chiaro: nemmeno l’esercito può sfuggire alle bombe. Nel secondo caso, il messaggio è andato a tutti i paesi che partecipano alla missione Unifil bis, Italia compresa. L’attentato si era prodotto a Rmeile, al di fuori della zona del Sud posta sotto il controllo dei caschi blu, quasi a significare che i soldati dell’Onu possono essere raggiunti ovunque. Il terzo attentato ha infine preso di mira una potenza occidentale, gli Stati Uniti, nel momento in cui il suo presidente effettuava una visita in diversi paesi della regione. Si trattava del primo attentato anti americano in Libano dal lontano 1983.
Che ci sia una mente unica dietro i tre attentati “anormali” non è da escludere. Esplicite minacce di vendetta contro l’esercito libanese “crociato” sono state profferite anche di recente dal capo di Fatah al Islam, sopravvissuto alla disfatta della sua organizzazione terroristica – costata comunque la morte di almeno 170 soldati libanesi – nel campo palestinese di Nahr al-Bared. Appelli ad attaccare le forze Unifil e gli interessi americani nella regione sono invece stati lanciati dal numero due di al Qaeda, Ayman al Zawahiri. Le piste avrebbero, a questo punto, una sola matrice fondamentalista islamica. Ma può anche trattarsi di una mossa astuta dei veri colpevoli. Che tentano tutte le strade possibili per portare il Libano verso la destabilizzazione totale, con la speranza di sottrarsi alle proprie responsabilità. Niente è più propizio per raggiungere questo obiettivo dall’attuale vuoto istituzionale che attanaglia il Libano sin dal 24 novembre scorso. Questo “concentrato” di interessi regionali e internazionali nel paese dei cedri lo comprova, infatti, la strana incapacità di eleggere un nuovo presidente della Repubblica nonostante l’unanime consenso sul nome di Suleiman. Il rischio è che, per scongiurare il caos, l’Europa si lasci andare a compromessi con chi si assume, direttamente o indirettamente, almeno la responsabilità dei precedenti attentati. Le dichiarazioni del presidente francese al Cairo sono emblematiche di questa tendenza. Se la Siria non collabora alla soluzione della crisi libanese, ha detto in sostanza Sarkozy, si vedrà accelerare l’istituzione del tribunale internazionale sugli assassini in Libano, da Hariri in poi. Come dire che, in caso di collaborazione, il tribunale sarà rimandato alle calende greche. Con buona pace delle vittime precedenti e attuali.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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