Un giorno d’estate a Locarno per il Festival del film più chic e snob. Ma a me è piaciuto

Di Elisabetta Ponzone
18 Agosto 2014
Una giornata al festival del cinema svizzero per conoscere il mondo e l’uomo che lo abita. E per allontanarsi un attimo dal proprio ombelico

LOCARNO (SVIZZERA) – A Valerio, il mio amico di Lugano, non piace il festival di Locarno. Quando gli ho scritto che ci sarei andata mi ha risposto così: «Io aborro Locarno! Pseudo intellectual radical chic svizzero tedeschi gauche-caviar di nerovestita con Freitag a tracolla. Comunque ti consiglio il Dancing Arabs». A parte l’antica gelosia tra le due piazze elvetiche, ho puntato verso nord per andare a capire che razza di festival è questo di Locarno. Premetto che sono assolutamente ignorante in tema di cinema e di tutto ciò che può essere etichettato come evento culturale. Mi sono accreditata e sono partita per annusare l’aria che si respira e per capire se Valerio aveva ragione.

Agosto sul lago, sessantasettesima edizione, 166 mila visitatori, undici giorni, 8 mila posti a sedere in piazza Grande e centinaia di pellicole cinematografiche che «raccontano il mondo e l’uomo che lo abita» come spiega Carlo Chatrian, direttore artistico, forse un po’ troppo semplice e naif per l’industria cinematografica. Un festival strano, nonostante gli anni, quasi insolito, tanto amato e fortemente criticato. Soprattutto quest’anno per la mancanza di Roman Polanski. «Dopo vari giorni di pioggia, oggi a Locarno splende il sole, ma per me è la giornata più scura da quando mi è stato chiesto di dirigere il Festival – afferma il 12 agosto Chatrian -. La decisione di Polanski di rinunciare al mio invito mi rattrista enormemente». Il Festival prende atto con rammarico della decisione di Polanski di rinunciare al Festival del film Locarno e la notizia fa il giro del mondo (peccato, mi ero prenotata per la sua lectio magistralis). Ma poi il tutto si ferma lì. Due righe ancora, ma più di gossip che di sostanza.

Se il festival è il sismografo del mondo, a Locarno il pubblico è il vero termometro della manifestazione. Non si fa ammaliare dai grandi nomi e tantomeno dal glamour che lascia senza rancore a Venezia e a Cannes. Educato e silenzioso il pubblico entra nelle sale (affollatissime), fa la coda per piazza Grande (8 mila posti a sedere), guarda, decide e applaude a seconda del proprio gusto. In Piazza Grande L’età delle donne e delle nuvole di Sils Mariacon la brava Binoche (e una sorprendente Kristen Stewart) nell’ultimo film di Assayas non riscuote passione. Pochi appalusi (a me è piaciuto!). Abbastanza energica l’accoglienza per l’anteprima mondiale di Lucy di Luc Besson con la Scarlett Johansson e Morgan Freeman. Buona per Dancing Arabs (nominato dall’amico Valerio) del regista israeliano Eran Riklis e per l’islandese Land Ho! Assoluto e indiscusso alto gradimento per Mula sa kung ano ang noon (From What Is Before), pellicola filippina che si è aggiudicata il Pardo d’oro.

«Dedico questo mio film alla pace nel mondo» afferma durante la cerimonia conclusiva del festival il regista Lav Diaz alzando verso il pubblico la statuetta felina. Cinque ore e mezza in bianco e nero con una fotografia quasi antica e raffinata da vecchio reportage di Live, che racconta le Filippine misteriose del ’72, l’anno in cui Marcos mette tutto il paese sotto la legge marziale.

Già presente a Cannes nel 2013 nella sezione Un Certain Regard e ancora prima a Venezia con una menzione speciale e un premio per la sezione Orizzonti, il regista Diaz è lontano anni luce dallo stereotipo filippino e la sua vittoria sembra quasi una rivincita sui luoghi comuni dell’oggi. Se in un bel palazzo di Milano le donne filippine non vengono quasi salutate quando entrano in ascensore, Diaz, classe ’58 che ha studiato economia e cinema, è stato incoronato re dei re al festival più intellettuale, indipendente e libero dalle logiche di mercato del mondo.

«Il talento non si possiede mai – afferma dal palco del festival il replicante e gentiluomo Rutger Hauer (Blade Runner, 1982) con le sue rughe che si stropicciano sul volto e le calze maculate gialle e nere come un leopardo – ma se lo ascolti ti porterà in luoghi incredibili».

Tra i film in concorso internazionale, con la giuria capitanata da Gianfranco Rosi, grande passione anche per il film del brasiliano Gabriel Mascaro Ventos de Agosto, per il creolo Cavalo Dinhero del portoghese Costa, per lo svizzero Abri girato in un ricovero d’emergenza per senzatetto a Losanna e per The Iron Ministry del giovane americano J.P. Sniadecki che ha saputo creare un grande viaggio cinematografico girando per tre anni sui treni in Cina e imparando il mandarino dalla gente comune.

Troppi i premi speciali per poterli citare, l’affascinante retrospettiva dedicata all’italiana Titanus o la raffinata sezione Open Doors a sostegno di quel cinema vulnerabile e indipendente proveniente da paesi del Sud ed Est del mondo, come l’Africa sub-sahariana di quest’anno. Tra i tanti personaggi, ho amato molto la ribelle Agnés Varda (Leone d’oro a Venezia con il suo Senza tetto né legge dell’85) ha ricevuto il Pardo d’onore affermando che «tutti i registi sognano di essere premiati una volta nella vita in Piazza Grande al festival di Locarno» senza paura di commuoversi. Con lei forse ho capito cose volesse dire dire Valerio, il mio amico di Lugano, affermando che le persone che vengono al festival di Locarno sono snob. Però io non sono d’accordo. Capisco un certo prurito nei confronti di chi si elegge a paladino della cultura o dei diritti umani e della libertà, ma guardando negli occhi la Varda, con i suoi 86 anni e quella voglia di vivere, mi sono sentita elettrica. Amo Locarno. Adoro guardare il mondo e l’uomo che lo abita. Mi affascinano quelle pellicole che mi riportano in luoghi lontani dal nostro solito ombelico, ma così frizzanti di vita e di passione. Mi piace quello spirito libero, semplice e quasi primitivo che si respira al festival. È vibrante sapere che l’uomo vive, nonostante tutto, anche in luoghi inimmaginabili e così diversi dai nostri. Il prossimo anno a Locarno ci torno!

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