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Cyrano da Fauglia

Un discorso da vecchio

Paolo Togni
13/02/2017 - 20:09
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alcide-de-gasperi-ansa

L’Italia era uscita dalla Seconda Guerra mondiale distrutta nel morale, nelle strutture fisiche, nell’apparato produttivo, nella credibilità internazionale; financo dal punto di vista morale le cose non erano allegre, per la devastazione dei costumi conseguente alle strette della guerra e all’occupazione degli alleati. Verso la fine degli anni Quaranta del Novecento sembrava molto improbabile che per l’Italia fosse possibile una ripresa a breve termine.

Quindici anni dopo, la ricostruzione era quasi completata, l’economia era in piena espansione, si era ospitato con grande dignità un evento mondiale, le Olimpiadi, che erano state unanimemente definite le migliori vissute fino allora. Aumentava il benessere, l’economia galoppava, il Pil cresceva a un ritmo mai visto prima e tra i primi al mondo, la nostra valuta era talmente solida da vincere l’Oscar delle monete, si avviava la motorizzazione di massa, aumentava a ritmo vertiginoso la scolarizzazione, e conseguentemente stava sparendo l’analfabetismo, la disoccupazione diminuiva giorno per giorno, la tassazione era sopportabile.

Non è certo un quadro simile a quello di oggi: e qualche motivo ci sarà pure.

La fine della guerra, con l’avvento del nuovo regime democratico, aveva determinato la messa sul mercato della gestione della cosa pubblica di una gran quantità di energie. I giovani che provenivano dal Partito popolare, da quello socialista, dalle aree di pensiero laiche, durante gli anni in cui far politica non era possibile si erano dedicati a sviluppare le loro professionalità nel mondo del lavoro; giunti alla maturazione fisica e intellettuale, nel ’45-’46 erano maturi per assumere l’onere della gestione degli affari pubblici. Fu così che, dietro un giovanotto di sessantacinque anni che si rimboccò le maniche e li mise tutti alla stanga, la neo selezionata classe dirigente – professori universitari, dirigenti di banca e di azienda, professionisti affermati: varie le provenienze, ma unica la caratteristica che li vedeva persone di successo nel loro ramo di attività – cominciò a ricostruire l’Italia, o meglio, a costruire una nuova Italia. I risultati furono eccezionali, e stanno nelle righe appena scritte.

Vale la pena fare un confronto con oggi: la professionalizzazione della politica ha fatto sì che ad emergere fossero prima in maggioranza, poi solo i giovani professionisti; gente che per lo più non ha mai lavorato, o che ha di quelle qualifiche ibride – giornalista che non scriveva, funzionario di associazione senza responsabilità, eccetera – inventate per dare copertura ai predestinati; e ha occupato posizioni di rilievo non per averle conquistate in un confronto di qualità, ma per intrallazzo, clientelismo, per cooptazione.

Costoro non seppero, e non sanno, tenere in mano le redini delle amministrazioni, e spesso si sono lamentati perché, ricoprendo posizioni di comando, non riuscivano a fare andare la macchina dove volevano, senza rendersi conto che il difetto non stava nella macchina, ma nel manico. Infatti il potere politico è irresistibile, e può superare qualunque ostacolo; purché si verifichino due condizioni: che lo si voglia usare e che lo si sappia usare: se non lo si vuole o non lo si sa usare è un’arma spuntata.

La volontà di usare il potere politico è molto diffusa, ma se non è accompagnata dalla capacità di usarlo si risolve, al più, in prepotenza istituzionale, altrimenti dà luogo a querimonie patetiche: le cronache recenti sono piene di resoconti che confermano queste valutazioni. Più difficile da trovare, vorrei dire rara, è la capacità di utilizzare efficacemente il potere politico: per possederla si presuppone il possesso di una buona conoscenza delle regole di funzionamento dell’amministrazione pubblica, e una attitudine al comando efficace, cioè sapere dove si vuole andare e come si deve indirizzare il timone per arrivarci. Chi possegga queste due qualità – ma solo chi le possieda tutte e due – ha diritto ad essere definito “uno statista”.

In tutta onestà, politici di oggi che posseggano le caratteristiche sopra descritte ne vedo pochini; e se sono già pochi quelli che possono essere definiti governanti, figuriamoci se cerchiamo gli statisti!

In quanto ho scritto sta la (mia) valutazione dei motivi per i quali l’Italia è ridotta come è ridotta. La conclusione del discorso è che occorre, al più presto, una classe dirigente nuova, che non sarà facile reperire, ma senza la quale l’impresa di rilancio dell’Italia, comunque assai difficile, appare impossibile.

Dirà qualcuno: e sull’onestà? Perché non hai parlato dell’onestà? La risposta è semplice: l’onestà non è un requisito, è un presupposto; il suo possesso è condizione non per vincere, ma per scendere in campo: giudicate voi…

[email protected]

Foto Ansa

Tags: dopoguerra
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