Non chiamare le cose col loro nome. Il caso di “transgender”
Che peso ha una parola, e il suo significato, quanto incide nel contesto culturale di una società? E cosa succede se il suo significato cambia, si allarga, include ciò che prima escludeva? Il biologo evoluzionista Colin Wright se lo è chiesto sul Wall Street Journal analizzando il numero di giovani americani che si descrivono come “transgender”, un numero esploso nell’ultimo decennio, «stando ai dati forniti dalle cliniche di genere e a un recente rapporto del Williams Institute basato su sondaggi dei Centers for Disease Control and Prevention. Come mai? La psicologa clinica Erica Anderson ha twittato che l’impennata “sfugge a qualsiasi spiegazione… Sta succedendo qualcosa che ancora non capiamo”». Certamente, nota Wright, si osservano una maggiore accettazione sociale del fenomeno e un contagio sociale sempre più diffuso, ma «penso che il motivo principale sia più semplice. Si tratta di un cambio di terminologia».
Il nuovo significato della parola “transgender”
Fino a poco tempo fa, scrive il biologo, «il termine “transessuale” si riferiva a persone con un’identità sessuale incrociata, con il desiderio di essere del sesso opposto o una diagnosi di disforia di genere. “Transgender”, il termine preferito ora, ha un significato molto più ampio. Comprende la mera non conformità con i rigidi ruoli sessuali tradizionali. Se sei un maschiaccio o un ragazzo effemminato, se la tua espressione o comportamento è diverso da ciò che è “tipicamente associato” al tuo sesso in base alle “aspettative tradizionali”, sei transgender».
Una volta passato nel sentire comune, questo cambio di significato ha conseguenze concrete e gravi, che non si limitano a qualche editoriale sui giornali progressisti o a qualche serie tv di cui parlare su quegli stessi giornali: se un ragazzo o una ragazza si sentono “transgender” è altamente probabile che si convincano di avere bisogno di un aiuto medico per “correggere” il proprio sesso, con i rischi che ad esempio la vicenda Tavistock ha insegnato.
La definizione scientifica di transgender non è scientifica
A propagandare questa idea, osserva Wright, sono importanti organizzazioni scientifiche e mediche: Planned Parenthood, innanzitutto, che «fornisce servizi ai pazienti transgender in tutte le sue sedi e nel 2020 si è definita il “secondo più grande fornitore americano di cure ormonali di affermazione del genere”. Il suo sito web definisce “genere” come “uno status sociale e legale e un insieme di aspettative dalla società, su comportamenti, caratteristiche e pensieri” e afferma che “si tratta più di come ci si aspetta che tu agisca, a causa del tuo sesso”».
Per restare in America, l’American Psychological Association, «che stabilisce le norme per la pratica clinica negli Stati Uniti, definisce transgender “un termine generico per le persone la cui identità di genere, espressione o comportamento di genere non è conforme a quella tipicamente associata al sesso a cui erano assegnato alla nascita”». Lo stesso vale per la Endocrine Society, l’organizzazione più antica e più grande del mondo dedicata alla pratica e alla ricerca in medicina ormonale, e per l’American Psychiatric Association, la cui definizione di espressione di genere è «la manifestazione esteriore del genere di una persona, che può riflettere o meno la sua identità di genere interiore basata sulle aspettative tradizionali».
Il CDC, l’agenzia federale di controllo sulla sanità pubblica degli Stati Uniti d’America, definisce transgender come «un termine generico per le persone la cui identità o espressione di genere (maschile, femminile, altro) è diverso dal loro sesso (maschio, femmina) alla nascita».
Che cosa succede negli ospedali
Il primo luogo in cui la nuova definizione più “inclusiva” di transgender ha risvolti pratici sono gli ospedali, spiega Wright: il Gender Affirming Health Program presso l’Università della California di San Francisco dice di prendere in considerazione la “transizione ormonale e chirurgica” per le «persone che non vivono all’interno della narrativa binaria di genere», che secondo loro include persone che si identificano come “genderqueer, genere non conforme , e il genere non binario. Il Children’s Hospital di Chicago afferma che i suoi pazienti includono “bambini gender expansive o non conformi al genere”, cioè «bambini e adolescenti che mostrano comportamenti non tipici del sesso di nascita assegnato».
Come si è arrivati a tutto questo? Poco per volta, e con un disegno ben preciso: «L’equiparazione della non conformità sessuale con il transgenderismo è nata in modo incrementale, attraverso un complicato processo normativo che ha coinvolto decisioni dei tribunali e linee guida burocratiche presiedute da gruppi di interesse transgender. Preso in prestito dal movimento legale delle donne, l’inquadratura della non conformità è stata progettata all’inizio degli anni 2000 e consolidata durante l’era Obama per autorizzare giudici e burocrati dell’Ufficio federale per i diritti civili a bypassare le procedure normative e costringere le scuole, pena la violazione del titolo IX, a rinviare all’autoidentificazione di genere dei propri studenti».
Se tutto (o quasi) è “transgender”, vale tutto
A quel punto il più è fatto: se tutto quello che non è “aspettativa tradizionale” finisce nella definizione-calderone di “trangender”, è probabile che sempre più persone si definiscano o vengano definiti transgender. A quel punto, soprattutto per i bambini, scatta la visita alla clinica di genere, dove un terapeuta «può prescrivere bloccanti della pubertà, ormoni sessuali incrociati e persino un intervento chirurgico per “riparare” questo disallineamento percepito tra “identità di genere” (cioè ruoli sociali e stereotipi) e il sesso biologico del bambino».
Tutto questo non è scienza, né medicina, ma ideologia che passa attraverso un processo culturale che inizia con il cambio di significato di una parola, prosegue con il parere degli “esperti” e si incardina nella società attraverso processi normativi e decisioni politiche. Il tutto con gli applausi dei media, degli intellettuali progressisti e del mondo liberal in generale. Sulla pelle dei bambini. E ripudiando – qui il paradosso di un mondo sedicente femminista – «decenni di lavoro da parte di attiviste per i diritti delle donne che giustamente giudicavano tali nozioni come sessiste e oppressive e si battevano per liberare i non conformisti dallo stigma sociale». Come dice Wright, siamo di fronte a «uno scandalo medico di proporzioni terrificanti».
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