Thriller-horror citazionista, fin troppo. È il ritorno di uno dei tanti registi di film di genere di successo nei decenni scorsi e che con gli anni duemila si sono persi per strada: Wes Craven, il regista di Nightmare e di Scream, la serie cinefila-horror più interessante degli anni Novanta. Torna a distanza di dieci anni dal precedente episodio e torna un po’ con le ossa rotte, avendo sul groppone parecchi titoli di scarso successo e snobbati proprio dal pubblico giovanile che un tempo lo incensava. Craven, insomma, come tanti altri registi della sua generazione (Carpenter e Romero, Joe Dante ma lo stesso Dario Argento, tra tutti quello invecchiato peggio) paga lo scotto di una disaffezione del pubblico sempre più crescente con il passare degli anni ma anche un’incapacità di svecchiarsi e di rimanere al passo coi tempi. Così, il suo Scream 4 come The Hole di Dante e i vari seguiti di Romero del capolavoro La notte dei morti viventi, è un film innanzitutto per iniziati, per fan, per coloro che si ricordano a menadito gli episodi originali.
Per questo il tono è quello di una rimpatriata davanti e dietro la macchina da presa. Si riunisce il cast quasi al completo dei primi episodi affiancati da un gruppo di giovani interpreti piuttosto anonimi. E, non essendoci niente di nuovo da raccontare, Craven vira nel territorio dell’ironia e dell’autoironia. Si prende in giro, bonariamente, molto dei primi episodi; si gioca, sin troppo, al gatto e al topo con lo spettatore già dalle prime sequenze. Si citano, più o meno espressamente, una quantità di film del genere, dall’immancabile Psyco a La finestra sul cortile e La donna che visse due volte di Hitchcock, a L’occhio che uccide di Michael Powell, il primo film, a detta di uno dei protagonisti, ad aver sdoganato al cinema il film di paura. Si ammazza all’interno di un cineclub di appassionati horror di una serie di film diretti da Robert Rodriguez e ispirati alle vere vicende di Sidney/Neve Campbell, l’unica sopravvissuta ai tanti massacri del Ghostface originale. Un cortocircuito narrativo e cinematografico che, pur divertendo il fan cinefilo, mostra con evidenza la stanchezza e la mancanza di idee di un autore che segnò il cinema di trenta e vent’anni fa. Craven, e con lui lo sceneggiatore storico della saga Kevin Wiliamson, ha ragione ad attaccare saghe come Saw, bollato come una semplice vetrina di orrori e torture e privo di quei riferimenti politici e sociologici tipici del cinema horror di alto livello.
In Scream, per esempio, oltre a mettere nero su bianco le convenzioni del genere per poi infrangerle nel capitolo due, si metteva alla berlina un certo modo di rappresentare l’universo giovanile degli anni 90 (Williamson è anche uno degli autori di Dawson’s Creek), così come si metteva in cattiva luce la rincorsa alla notizia, allo scoop giornalistico. La serie, insomma, era una riflessione cinefila sul film horror in quanto tale e al tempo stesso un ottimo esempio di cinema d’intrattenimento. Con il capitolo 4 Craven gira però un film non necessario, datato e che fatica a spaventare perché ricorre a elementi, come il telefono stesso, che ormai appaiono superati. E non basta certo trasformare il cordless in un iPhone o, peggio, fornire al serial killer una videocamera perché possa filmare le vittime da dare in pasto alla Rete. Non basta e non basterà a un pubblico che, ci scommettiamo, almeno tra i giovanissimi abituati a ben altre immagini e tecnologia del recente cinema horror, non premierà questo film tanto naif, nostalgico, cult solo per chi ricorda con affetto quegli anni 90 a cui – ed è forse la prima volta al cinema – si guarda con nostalgia, etichettandoli apostrofandoli enfaticamente come “magnifici”. Ma è difficile amare una fotografia sbiadita di un tempo che non c’è più. E Scream 4 assomiglia tanto alla fotografia di un tempo glorioso perduto per sempre. Passato e fuori moda come i giovanissimi che solo qualche anno fa si trinceravano in casa per vivere l’emozione e i brividi di un horror a basso costo.