Reintrodurre la schiavitù (con regolare contratto)
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Un conoscente ha attirato la mia attenzione su un articolo comparso qualche giorno fa su Econopoly, testata online affiliata al Sole 24 Ore, dal titolo abbastanza singolare: “Reintrodurre la schiavitù è o no un’opzione per la società moderna?”. Volendo escludere che si tratti di una provocazione, dato l’approccio al problema che si vuole razionale e analitico, l’impianto argomentativo in sostanza è il seguente: la natura del lavoro sta cambiando, per molte ragioni tra cui la digitalizzazione crescente, l’esternalizzazione eccetera; cambiamenti che si traducono di fatto nella perdita di garanzie e benefici per il lavoratore. E questo al punto che, secondo l’autore dell’articolo, non solo si configura già in molti casi una condizione di “schiavitù di fatto”, ma addirittura è il caso di valutare se la stessa schiavitù come istituzione, rispetto ai problemi con cui ci troviamo ad avere a che fare nel mondo moderno, non sia stata sostanzialmente denigrata. Del resto la storia ci insegna che molte società del passato si sono fondate profittevolmente su questo istituto.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]A questo punto per stornare l’impressione che ci siano forzature nell’interpretazione, cito: «La schiavitù è vista spesso con un’accezione negativa […]» (sic) «[…]Perché, quindi, non si può valutare, nei programmi politici delle incombenti elezioni, una proposta di legge per re-instaurare l’istituto della schiavitù? Fatti due conti veloci alcuni milioni di neo-schiavi potrebbero essere interessati ad un programma che possa migliorare le loro condizioni», e così via.
In sostanza, conclude l’articolo, una regolamentazione soft della schiavitù che garantisca allo schiavo certi benefici – per esempio la copertura delle spese mediche o di istruzione, come del resto avveniva storicamente in età classica – in cambio della sua «disponibilità assoluta» (sic) potrebbe non essere l’aberrazione che si crede.
Ora, non volendo cadere in bocca alla Cariddi sindacalista/barricadera per sfuggire alla Scilla di una supposta razionalità economica che vuole essere pragmatica e diventa mostruosa, proverei a mettere in chiaro qualche aspetto.
Primo aspetto: l’idea di reintrodurre la schiavitù è e resta, di fatto, un’aberrazione; per elementari ragioni di dignità della persona e del lavoro che dovrebbero essere autoevidenti – ma date le circostanze storiche forse non lo sono più.
Secondo, e su questo si può anche essere d’accordo con l’articolo di Econopoly, i processi storici che hanno determinato l’abolizione (e quindi forse il ritorno) dell’istituto della schiavitù devono essere rivalutati. Bisogna tornare a studiare la grande riforma culturale che ha piantato e fatto crescere in tutta Europa il seme contenuto nelle parole di S. Paolo ai Galati: non vi è più schiavo né libero perché tutti sono uno in Cristo Gesù. Una rivoluzione che è stata fede e cultura prima di diventare diritto e allo stesso tempo concretissima riedificazione della società. Chesterton, che si è occupato di questi temi in tanti suoi scritti, scrisse che la società degli schiavi era stata sostituita gradualmente, nei secoli del Medioevo, da un tessuto di piccoli proprietari e di professionisti organizzati in associazioni di categoria. Secondo la sua filosofia, il distributismo, era ancora questa la migliore alternativa possibile ad una società di salariati (ovvero di dipendenti) che ai suoi occhi non si distingueva da quella un tempo fondata sulla schiavitù. È possibile valersi di queste indicazioni, senza ignorare i mutamenti intervenuti dall’inizio del ‘900 a oggi? La domanda resta aperta.
C’è infine un terzo aspetto, che ci riporta all’articolo di cui è apprezzabile in ogni caso il candore – voglio sperare – del linguaggio. Vi si fa riferimento all’idea di un “contratto di schiavitù”, che è interessante e problematica: può essere il contraente al tempo stesso libero soggetto di diritti e mero oggetto di negoziazione? Ma se ci pensiamo, non è la stessa logica del vicolo cieco a cui tante strade oggi sembrano portare, dalla GPA al fine vita: la logica univoca di un’affermazione astratta di libertà che può sboccare solo nella libertà di rinunciare a essere liberi?
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